«Non so perché i Deep Purple siano diventati all’improvviso così famosi negli Stati Uniti», dice Jon Lord nel backstage. «Siamo in giro da cinque anni e suoniamo più o meno lo stesso tipo di musica».
Con un importante seguito in Europa, Asia, Scandinavia e Australia, i Deep Purple sono da tempo uno dei gruppi più importanti al mondo, uno dei prototipi dell’heavy metal. L’America, dove i loro album hanno iniziato a diventare dischi d’oro solo l’anno scorso e dove hanno già fatto sei tour per lo più sold out, è stata l’ultima a prendersi la Purple Fever. Il motivo potrebbe essere nella storia irregolare della band, e pure di tutte le epatiti che si sono presi.
I Deep Purple esordiscono nell’estate del 1968 con un singolo di successo, Hush, per la Tetragammatron. La band, che non ha ancora quel suo celebre suono metallico, è formata in quel momento da Rod Evans alla voce, Nicky Simper al basso, Jon Lord all’organo, Ritchie Blackmore alla chitarra solista e Ian Paice alla batteria. Tre album usciti in rapida successione li hanno portati al successo fino alla fine del 1969, quando la casa discografica chiude improvvisamente.
I Deep Purple decidono così di prendersi un anno di pausa. Licenziano Evans e il bassista Simper, assumono al loro posto Ian Gillan e Roger Glover. «Rod», racconta Paice, «è molto bravo quando si impegna», ma non aveva la voglia di essere un rocker scatenato. «È molto più felice nelle ballate e nei suoni più leggeri. Ian invece è un cantante rock’n’roll». In quanto a Nicky, «non entrerò troppo nei dettagli, ma avevamo così tante differenze che era inevitabile che se ne andasse».
Quando il gruppo riemerge, i cinque firmano per la Warner e pubblicano Deep Purple and the Royal Philharmonic, un concerto tra rock e classica scritto e composto interamente da Jon Lord che aveva «voglia di fare qualcosa del genere da molto tempo».
È poi il turno di In Rock, l’esatta rappresentazione dei Deep Purple di seconda generazione e, agli occhi di molti, il capolavoro heavy definitivo. Per lo più ignorato negli Stati Uniti, l’LP è invece un successo in tutta Europa e assicura un grande ritorno della band. Gli stessi Deep Purple considerano ancora oggi In Rock il loro disco migliore.
«L’album ci è venuto abbastanza facile», racconta Paice. «La cosa più difficile è stato il disco dopo. Stavamo suonando così tanto a causa del successo di In Rock che quando abbiamo provato a fare Fireball ci siamo resi conto di non avere alcuna idea. Con Fireball è stato più un “speriamo di aver fatto un buon album”».
La band parte finalmente per il suo primo grande tour americano nel 1971. Ma Gillan si ammala di epatite e la band è costretta a tornare in Inghilterra e poi in Francia per cercare di incidere un altro album, affittando la sala da ballo di Montreux vuota e acusticamente perfetta. Ma due giorni prima dell’inizio delle registrazioni, la sala da ballo va a fuoco.
«Così ci siamo stati trasferiti al teatro locale», spiega Lord, «ma il volume lo faceva tremare e gli abitanti del quartiere continuavano a chiamare la polizia. Alla fine abbiamo trovato un hotel che era stato chiuso per la stagione. Abbiamo insonorizzato le finestre, sigillato una sala e fatto Machine Head nel corridoio».
Machine Head è l’album che li apre il mercato statunitense e per i Purple è l’occasione per tentare di nuovo un tour americano. Questa volta durano quattro giorni, finché Blackmore non si ammala anche lui di epatite e torna a casa. Nel tentativo di completare il tour, prendono Al Kooper come sostituto temporaneo. Nelle prove le cose funzionano, ma poco prima del concerto Kooper ha un esaurimento nervoso e si ritira. Randy California viene chiamato a sostituirlo in tempo per un concerto nel Quebec. Ma poco prima che il gruppo si imbarchi sull’aereo che li avrebbe portati allo show, la Air Canada entra in sciopero.
Jon Lord strizza gli occhi alle luci del camerino mentre ricorda. «Randy era bravissimo, Dio lo benedica, ma era diventato tutto un tale casino che sentivamo il bisogno di tornare a casa. Non ce la facevamo più». E quando sono tornati a casa, prosegue Paice, «il morale era a terra. C’erano molti problemi interni alla band. Non avevamo più lo slancio di prima e iniziavamo a perdere la pazienza».
Non appena Blackmore si riprende, i Deep Purple tornano negli Stati Uniti per recuperare i numerosi show cancellati. Nello stesso periodo pubblicano un altro LP in studio, Who Do We Think We Are!. Paice: «Originariamente dovevamo registrarlo a Roma, nel giugno dell’anno scorso. Siamo arrivati lì, come al solito, senza idee. Ma c’era il sole. C’era una bella luna. E così abbiamo passato il tempo in piscina. Le cose non erano state pianificate bene e l’edificio in cui dovevamo registrare non era adeguatamente insonorizzato. Quando tutto era pronto, ci siamo resi conti che ci rimanevano solo tre giorni. Così abbiamo fatto solo un brano, Woman from Tokyo. Allora siamo tornati nuovo a casa dopo aver speso credo 24 mila dollari. Lavorare in Germania ci è costato altri 24 mila dollari e non avevamo tempo previsto per quella seconda session, così abbiamo dovuto cancellare dei concerti per trovare le tre settimane necessarie a registrare l’album».
«È un disco strano» dice Ritchie Blackmore. «Il modo in cui lo abbiamo fatto è stato quello di mettere giù le tracce di accompagnamento per Ian che sarebbe venuto il giorno successivo, quando il resto della band era libero per registrare le voci. Non ci siamo mai visti tutti in studio una sola volta durante le registrazioni». Perché? «Perché siamo pigri».
Il futuro dei Deep Purple ora sembra meno complicato. Dopo aver risolto le varie problematiche interne e dopo questo tour mondiale (per promuovere Made in Japan) si fermeranno per tre mesi. È di nuovo tempo di riflessioni.
Alla domanda se ci saranno degli altri cambi di formazione Lord risponde con un’altra domanda: «Cosa posso dire? Dobbiamo fare ordine tra noi. Negli ultimi tre anni non abbiamo fatto altro che lavorare, quindi in questi tre mesi faremo molti cambiamenti. Cambiamenti che avremmo voluto fare da tempo, ma che non siamo stati in grado di fare».
Blackmore, che sta in un camerino separato, sta formando un power trio blues come alternativa ai Deep Purple. Pur sostenendo che sarà chitarrista di entrambe le band, parla del suo coinvolgimento con i Deep Purple al passato. «Voglio suonare il blues», dice convinto. «Lo so che ci sono molte band che lo fanno, ma i Deep Purple sono troppo pop. Sono già stato una star, ho già fatto i soldi, ora voglio fare qualcosa che mi piace. Con i Deep Purple è sempre stato un 75% di cose che ci piacevano e il rimanente 25%… per i soldi».
Da Rolling Stone US.