Mercoledì 18 giugno 2003, mezzogiorno, siamo al Flatiron District di New York, la zona di confine tra la ricchezza dei quartieri alti e la coolness di Downtown. Siamo sul lato ovest di Madison Square e Shawn Carter è indaffaratissimo. Tra qualche ora terrà un gram party che farà chiudere la 25a Strada ovest e attirerà celebrità tra cui l’amico di vecchia data e socio in affari Dame Dash, Heavy D, Magic Johnson, il playmaker dei Nets Jason Kidd e il golfista Ricky Barnes.
I corrispondenti dei network, affamati di storie in questi giorni estivi torridi, arrivano a frotte: WB11, UPN, ABC, CNN, NBC, Billy Bush di Access Hollywood. Sono pronti con le troupe per sfruttare i pochi istanti che hanno per parlare con il rapper che ha 33 anni ed è diventato una leggenda in un tempo sorprendentemente breve. A novembre, in Change Clothes, primo singolo estratto dal Black Album, Shawn Carter ovvero Jay-Z incoraggerà i fan a “cambiarsi i vestiti”, ad abbandonare l’uniforme fatta di jeans larghi, cappellini portati all’indietro e magliette XXL prodotti e venduti dal suo marchio di abbigliamento valutato 204 milioni di dollari, la Rocawear. Eppure oggi è vestito esattamente così: maglietta bianca nuova di pacca, cappello Rocawear con cuciture a X girato all’indietro, jeans larghi, sneaker bianche e orologio enorme.
Lui è pronto. Non lo è lo spazio gigantesco di 12 mila metri quadri in cui si trova. Un esercito di elettricisti tira cavi elettrici e coassiali nelle pareti ancora aperte, ci sono muratori in equilibrio su scale a pioli, i divani bianchi sono avvolti nella plastica, i bagni sono da finire. Questa sera dovrà essere tutto pronto per l’inaugurazione del nuovo sport bar chiamato 40/40 Club.
Alla domanda che gli viene posta più volte, «come si fa a essere ammessi nel locale?», lui risponde che «devi sprigionare la giusta energia, è nostro diritto essere selettivi».
Molto probabilmente negli anni ’80 e nei primi ’90 anche Jay-Z è stato lasciato ad aspettare in fila fuori dai locali come tutti noi sbarbati e sfigati. Ma ora il ragazzo di Marcy ha il suo cordone, la sua porta, il suo club. È reduce da un filotto leggendario di sei album di platino e per i prossimi due decenni questo sarà il suo quartier generale, laboratorio, parco giochi, ufficio. Qui, con l’aiuto di un team selezionatissimo, passerà dall’essere un businessman a diventare egli stesso un business. Il nome del locale è preso da un’impresa rara nel baseball: battere 40 fuoricampo e rubare 40 basi in una sola stagione. È una prodezza che richiede potenza e velocità, due caratteristiche che Carter applica nella carriera, negli affari, nella vita.
Nel giro di 20 anni, sulla facciata della Brooklyn Public Library appariranno i suoi testi. Nel giro di 16 anni diventerà il primo miliardario del rap. Cinque anni dopo sposerà quella che già allora è la sua ragazza, Beyoncé Knowles. Entro la fine dell’anno si sarà “ritirato” dal rap e subito dopo sarà nominato amministratore delegato della Def Jam. Ma oggi è il giorno dedicato alla stampa, c’è un’attività da pubblicizzare.
Col senno di poi, l’idea del 40/40 Club era ridicola, una cosa che avrebbe potuto immaginare un adolescente: uno sport bar di lusso che è anche nightclub. Ma quando c’è di mezzo Carter, la differenza non la fa l’idea, ma l’esecuzione.
«Voleva fare delle visite guidate per la stampa, era entusiasta di farlo vedere», ricorda Ron Berkowitz, CEO e fondatore di Berk Communications, che ha gestito le pubbliche relazioni per il 40/40 fin dal principio. «Molti pensano che sia l’enessimo caso di celebrità che ha piazzato il proprio nome su un progetto. No, lui è stato coinvolto in tutto, cazzo, ha scelto persino il bar e i divani, ha contribuito a ogni minimo dettaglio di quel posto ed era orgoglioso di ciò che aveva costruito».
E però nel 2003 il successo del 40/40 Club non era affatto scontato, almeno sulla carta. Prima del party d’inaugurazione, la polizia si è presentata per un sopralluogo, sapendo di dover chiudere la 25a Strada per l’evento. Secondo una mia fonte, gli agenti erano scettici, pensavano che la serata sarebbe andata male, con disordini o peggio.
In quel periodo i cosiddetti Hip Hop Cops imperversavano a New York e le esibizioni rap dal vivo erano praticamente bandite. Rap e rapper erano visti come fonte di problemi. Altri locali rap come il Justin’s di Diddy, sempre a Flatiron, erano considerati, come si legge in una recensione del New Yorker del 2003 “spazi vivaci ma caotici, regolarmente a corto dei piatti più richiesti del menu e con la tendenza a chiudere senza preavviso, in base ai capricci di proprietari famosi”.
E invece il lancio del 40/40 è stato impeccabile. Gli stessi poliziotti che prima erano scettici sono tornati al club, dopo la festa, e hanno detto alla mia fonte che «è stato incredibile, avete fatto un ottimo lavoro».
Il bar del club ha avuto un tale successo da dare vita due anni dopo a un franchising, con una propaggine ad Atlantic City, New Jersey, e altre sedi (durate poco) a Las Vegas, all’aeroporto di Atlanta e all’arena Barclays Center di Brooklyn (dove una saletta ne porta ancora il nome). Il locale era perfetto per le esigenze di una certa fascia della vita notturna newyorkese. Era accogliente, un ambiente rilassato, ma lussuoso ed elegante, allo stesso tempo accessibile ed esclusivo.
L’idea di stare vicini a Carter e alla sua cerchia era l’attrattiva principale del posto. Una volta varcate le porte di legno sulla 25a Strada, come quelle di un castello con maniglie argentate a forma di mazza da baseball, poteva capitare di vedere J. Cole che si esibiva sulle scale o il cestista Alonzo Mourning che si intratteneva con Dame Dash. In un giorno qualsiasi, nell’arco di una ventina d’anni, potevi trovare Carter e i suoi amici in un’area riservata ma visibile oppure aggirarsi da qualche parte nel locale. «C’erano lui e Beyoncé e un sacco di gente li cercava per rendere loro omaggio», racconta Jeff Rosenthal di ItsTheReal e del podcast sull’hip hop The Blog Era.
«La gente sapeva che al 40/40 sarebbe arrivata qualche celebrità, perché lì la gente famosa si trovava a suo agio», dice J’Vonn Forbes, promoter di eventi per il locale. «Ci potevi trovare Rihanna, Jay-Z, Beyoncé, Lil Uzi o giocatori professionisti di basket».
Per un primo restyling del club, il defunto architetto Jeffrey Beers e il suo team si sono ispirati all’architettura classica di New York, oltre che allo stile di Carter. «Volevamo che l’atmosfera riflettesse raffinatezza e lusso urbano», ha detto Beers, «ma senza la freddezza e la pretenziosità che si vedevano in molti club dell’epoca».
C’era un bar con bancone ambrato in resina, sedute rivestite in pelle su rialzi tipo gradinate di marmo bianco lucido, mobili in noce e un’installazione di mazze da baseball customizzate disposte seguendo uno schema geometrico. Era tutto legno scuro e pelle morbida, illuminato da una luce calda, come se ci si trovasse nella villa di un amico ricco o nel suo humidor. La sala era disposta in modo ascendente, con soppalchi che partivano dalla zona bar, dove gli avventori in piedi stare in piedi. Più sopra c’erano aree rialzate dove sedersi che offrivano una buona visuale degli schermi dei televisori. I DJ suonavano rap, dai classici della East Coast a Young Thug.
Frazier Tharpe, senior editor di GQ che si autodefinisce studioso di Jay-Z, paragona lo spazio al Bamboo Lounge, quello in cui all’inizio di Quei bravi ragazzi una telecamera ci fa fare un giro vorticoso presentandoci il gruppo variopinto di personaggi affiatati da cui era attratto un giovane Henry Hill. «Il mio primo ricordo di quel posto è quando era talmente nuovo che Jay-Z era lì dentro. Ci sono andato a pranzo e lui era lì, seduto sui gradini col suo BlackBerry».
Anche quando non c’erano star da vedere al bar, c’era sempre la possibilità che fossero da qualche parte nel retro, nascoste. Oltre l’area principale, salendo le scale, il club era suddiviso in vari livelli, come un palazzetto dello sport, una piramide o una grande nave. Corridoi labirintici, decorati con cimeli sportivi di valore inestimabile conducevano a stanze appartate e box di lusso, dove atleti, musicisti, celebrità e altre varie personalità potevano starsene in disparte (in ordine decrescente: la Jay-Z Lounge, l’Elite Lounge, la Coaches Lounge e un mezzanino semiprivato, con salotti e bar lungo una passerella al secondo piano). I super ricchi e famosi ci accedevano in modo discreto, attraverso porte laterali e scale sul retro.
Le aree private avevano prezzi diversi e si potevano acquistare pacchetti. C’era una spesa minima e un costo di affitto della stanza. Ogni spazio era personalizzato con caratteristiche diverse, senza trascurare alcun aspetto. «Le stanze al piano superiore erano un altro mondo», dice Tharpe. «Una persona qualunque poteva entrare nel locale e non sapere che al piano di sopra c’era Meek Mill». Forbes dice qualcosa di simile: «Ridevo perché la gente entrava e diceva: ci sono solo 30 persone qua dentro. Perché solo quelle vedeva. Ma se fossi stato un mio caro amico, ti avrei detto di uscire dove avresti notato un’auto che costava, tipo, 400 mila dollari. La persona che guidava quell’auto era dentro, semplicemente era entrata dal retro ed era in una stanza privata».
Berkowitz cerca di dare una collocazione al club nel pantheon storico della vita notturna di New York: «Lo Studio 54 un tempo era il luogo dove la gente andava a farsi vedere. Il 40/40 era la stessa cosa per gli atleti, i musicisti e alcune celebrità. Lì potevano sentirsi a proprio agio, senza che nessuno li disturbasse. Ma c’era anche gente comune, perché le persone normali sapevano che era un locale anche per loro. Sono pochi i luoghi in cui ci si può mescolare e socializzare in questo modo. I posti sulle gradinate erano in vista. Così, quando Beyoncé o Kevin Durant o Shaquille O’Neill o il presidente Obama erano seduti dietro di te, li vedevi».
Berkowitz non esagera quando fa il nome dell’ex presidente. Durante la campagna per la rielezione di Barack Obama nel 2012, il 40/40 ha ospitato una raccolta fondi a porte chiuse, molto pubblicizzata, da quattro milioni di dollari. All’epoca la cosa ha generato titoli da prima pagina, coi tabloid che cercavano di strumentalizzare l’opulenza del locale di proprietà del rapper per dipingere Obama come uno snob fuori dal mondo, insistendo sulla torre di bottiglie di Armand de Brignac da 105 mila dollari per dimostrare la loro tesi. Berkowitz spiega che, come tutte le cose legate al 40/40, è stata un’esperienza unica e, allo stesso, tempo niente di speciale.
«Ricordo di aver guidato il sopralluogo dei servizi segreti», dice Berkowitz. «C’era un’euforia incredibile nell’aria. E poi, Obama era il presidente, ma anche un tipo alla mano. Voleva parlare di sport e stare in compagnia. Capito l’influenza di Jay-Z e Beyoncé? Non è una cosa che accade spesso. Penso che molte di queste raccolte di fondi, in cui si muovono grandi somme di denaro, avvengano nelle case delle persone negli Hamptons o nei loro appartamenti, e il fatto che questo club ne abbia ospitata una è stata una cosa speciale. Spero che abbia contribuito in qualche modo a portare Obama alla Casa Bianca per altri quattro anni».
I contrasti sono da sempre al centro della carriera di Carter. A partire dal 1996, quando cercava di far ascoltare i singoli di Reasonable Doubt su Hot 97, si è trovato a essere sminuito, a sentirsi dire di no più e più volte. I consulenti non credevano che potesse avere successo senza la loro guida e collaborazione, i brand sottovalutavano il suo contributo come testimonial. Ha dimostrato che poteva farcela da solo.
Nel 2003 aveva raggiunto ogni traguardo e battuto tutti i record. Aveva conquistato il Summer Jam, si era guadagnato recensioni da cinque microfoni su The Source e probabilmente era stato il re di New York per il periodo più lungo che il rap avesse mai registrato. Col Black Album, la conquista della presidenza della Def Jam e la separazione dai soci Dame Dash e Kareem “Biggs” Burke, ha fatto capire che stava passando alla fase successiva della sua vita: quella di magnate nella sua era post-artistica. In questo quadro rientrava anche il club che avrebbe eletto a suo quartier generale. Una sua mossa tipica.
Il 40/40 Club si inseriva in una lunga e prestigiosa tradizione del XX secolo: quella delle clubhouse delle celebrità. Lo stesso Robert De Niro ha praticamente stampato la sua impronta su TriBeCa con un locale di tendenza. Mickey Mantle aveva uno sport bar a Central Park South. Michael Jordan aveva una catena di steakhouse. A rendere unico il 40/40 Club era ciò che rappresentava: il rap che reinterpretava questo concept e lo adattava al suo tempo, per persone e culture che non avrebbero dovuto avere parte in questa tradizione. Ma non era solo un posto dove farsi un drink: per Roc Nation, la società di intrattenimento ed etichetta discografica fondata da Carter nel 2008, era un luogo dove fare affari.
«Io e i miei ragazzi, dentro e fuori Roc Nation, volevamo il nostro Cheers (il bar dell’omonima serie tv, in italiano Cin Cin, ndt)», dice Lenny Santiago, alias Lenny S, vicepresidente senior di Roc Nation. «Ho portato tanta gente da Jay. «Abbiamo fatto un sacco di meeting. Ho portato Swizz e Timbaland. Persone diverse, artisti, produttori con cui Jay voleva collaborare. Se non eravamo in studio o in ufficio, eravamo lì». Lo stesso vale per Roc Nation Sports, l’agenzia sportiva di management che al momento vanta più di 100 assistiti, a partire dall’ex seconda base degli Yankees Robinson Cano, il primo e più importante cliente dell’agenzia (a Carter si deve il merito di aver fatto avere a Cano il contratto decennale da 240 milioni di dollari, un record per allora, con i Seattle Mariners nel 2013).
«Credo che il 40/40 Club sia stato un elemento fondamentale per realizzare le sue ambizioni nel mondo dello sport», afferma il giornalista Zach O’Malley Greenburg. «Il club ha intensificato i suoi rapporti con gli atleti». Carter e il suo team hanno avviato Roc Nation Sports in partnership con l’agenzia di talenti CAA (per poi separarsi due anni dopo). Ma i semi sono stati piantati al 40/40, un decennio prima del lancio del 2013. Nel libro sull’ascesa finanziaria di Carter, Empire State of Mind: How Jay-Z Went From Street Corner to Corner Office, O’Malley Greenburg ripercorre l’estate dell’apertura del club, quando Carter ha sponsorizzato una squadra per un torneo di alto profilo che attira sia le leggende dello streetball che i giocatori professionisti, dimostrando tutta la sua abilità nella promozione trasversale. La squadra che ha messo insieme ha funzionato come spot per il suo club appena inaugurato e per le sue nuove scarpe da basket S. Carter Reebok. Per ogni partita, questa squadra di all star veniva ospitata dal 40/40 Club prima dell’inizio e dopo, per un afterparty. Il tragitto veniva fatto a bordo di un bus tappezzato di pubblicità delle sneaker di Carter. «È un ottimo modo per creare entusiasmo verso un luogo, per attirare i paparazzi e molta pubblicità gratuita», spiega O’Malley Greenburg.
Il 40/40 è divenuto il posto in cui venivano elaborati e testati i prodotti e le campagne di marketing di Carter. Basti pensare al maestoso tempio dorato, alto sei metri e costato milioni di dollari, assemblato usando bottiglie del suo champagne Armand de Brignac Ace of Spades. Non era solo un monumento scintillante alla sua leggenda, era anche uno dei cartelloni pubblicitari più grandi del mondo.
Se andavi al 40/40 nei primi anni 2000, probabilmente sorseggiavi dell’Ace of Spades. Carter ha lanciato il marchio di champagne nel 2006 con il videoclip di Show Me What You Got, il pezzo del suo ritorno dopo il “pensionamento”. Il video sostanzialmente era uno spot per lo champagne. A un certo punto, a Carter viene offerta una bottiglia di Cristal, ma la rifiuta, optando per una bottiglia di Ace of Spades.
Lo champagne, la sua marca di cognac, D’Ussé, e il 40/40 erano presenze costanti nelle sue barre. Per l’inno del 2007, Roc Boys, nei corridoi, sulle scale, nella pista da ballo, al bar e nella cucina del club ha girato un videoclip che ancora una volta diventa uno spot pubblicitario. «Era uno sports bar ambizioso», dice O’Malley Greenburg, «e allo stesso tempo un veicolo di marketing per qualcosa di molto più redditizio per lui».
L’annuncio risale alla scorsa estate: il 40/40 di Flatiron avrebbe chiuso, per poi riaprire da qualche altra parte, a Manhattan, nel febbraio 2024. Pochi mesi dopo, la data è stata spostata al 2025.
Il 40/40 Club potrebbe svanire, diventando una nota a piè di pagina nei libri contabili del patrimonio di Jay-Z. Ma proprio questa impresa relativamente piccola forse ha costituito la chiave di volta della sua ambizione, aprendogli la strada a tutte le altre imprese, dimostrando che poteva sfruttare il suo personal brand e, insieme ai soci nel club (Desiree Perez e “OG” Juan Perez), gestire un’azienda che l’ha fatto diventare quel fuoriclasse e titolare di un impero.
«Jay ha modificato e cambiato di continuo il panorama culturale», dice Forbes. «Che si parli di Rocawear o di Ace of Spades, è stato uno dei primi rapper a giocare su vari tavoli. È incredibile che un club sia durato tanto a lungo, per 20 anni, e che si sia dedicato principalmente alla cultura hip hop. A New York la vita media di un locale è di tre anni».
Carter non ha mai smesso di frequentare il club: nel 2021 era a una festa, con tanto di red carpet e star, per il 18° anniversario del 40/40. Pochi mesi prima della chiusura definitiva, Papoose ha tenuto una celebrazione a tema Hip Hop 50 con la partecipazione di grandi nomi del rap newyorkese, da Jim Jones a Fabolous a Ja Rule.
Oggi, però, l’idea del club o del ristorante di proprietà di un rapper è molto cambiata. Il nuovo obiettivo, nell’era dei rapper-magnati, è più in linea con quello di Nas, che è stato uno dei maggiori investitori nel gigante del pollo e dei waffle Sweet Chick, o con il WingStop di Rick Ross, che al momento vanta più di 30 franchising a livello nazionale. Anche Carter si è mosso in questo senso investendo nella catena Sweetgreen che serve solo insalate, abbandonando così l’era delle cravatte nere e dei frac, delle bistecche, delle aragoste e delle bottiglie al tavolo, in cui si spendevano somme indecenti, sotto gli occhi di tutti, in compagnia degli amici più glamourous, per arricchirsi con le açai bowl.
Il 40/40 Club ha fatto da ponte tra l’epoca delle piste da ballo o del tavolo d’angolo in cuisi va per farsi notare e il presente, in cui si paga per non essere visti, come al Las’ Lap di Michael B. Jordan, nel Lower East Side di Manhattan. Perché oggi, se ti fai vedere, finisci su Internet.
A New York alcuni posti sono maledetti e altri baciati dalla fortuna. L’angolo tra la 25esima e Broadway fa parte della seconda categoria. Molto tempo prima di ospitare il 40/40 era occupato da una parte della Hoffman House, un albergo del XIX secolo che era un residence, un luogo dove mangiare bistecche, fumare sigari e scommettere sulle partite di football universitario in cui si riunivano presidenti, broker e celebrità. È sempre stato un angolo importante di New York, un centro nevralgico. Il 40/40 Club entra ora a far parte di questa storia e di una grande tradizione. È difficile immaginare un degno successore, ma forse avremmo detto la stessa cosa nel 2003.
Qualche mese fa sono andato in pellegrinaggio fino a quell’angolo sacro, la sede del 40/40 appena chiuso. Sulle vetrine si era già accumulato uno strato di polvere e all’interno era stata montata una lastra sottile di cartongesso grezzo che bloccava la vista. Qualcuno, però, ne aveva rotto un pezzo, creando così una specie di oblò. Accovacciandosi e aguzzando la vista, con la luce giusta lo si poteva usare per sbirciare nel locale in gran parte ancora integro. C’era una luce soffusa e dorata che proiettava un bagliore sinistro sulle pareti, sui pannelli di legno, sulle finiture e sul marmo. Si poteva vedere la gradinata scenografica dove un tempo sedevano Barack Obama, Warren Buffet e Memphis Bleek.
Ho fatto un passo indietro per osservare l’angolo e il parco che c’è subito dietro. Era l’ora del tramonto, c’erano turisti, storditi e confusi, che compulsavano i telefoni alla ricerca dello Shake Shack originale o di Eataly o del Lego Store. I pendolari appena usciti dal lavoro correvano a prendere il treno verso Uptown o Downtown, oppure solo per raggiungere un bar dove farsi un Dirty Martini. Nessuno era consco o si curava del posto che stava sfiorando. Sopra quelle enormi porte, si vedeva ancora il segno del punto in cui il logo del 40/40 è stato appeso per 20 anni. Per un attimo, il sole ha fatto nuovamente brillare il nome sulle venature del legno e m’è parso di percepire la presenza dei fantasmi della clientela pomeridiana, riunita per un ultimo happy hour insieme. E ho visto il locale così come Shawn Carter l’ha visto un tempo, quand’era un giovane artista che stava per iniziare una nuova vita.
Da Rolling Stone US.