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Quarant’anni fa usciva ’Songs from the Big Chair’ dei Tears for Fears, un discone progressive pop

Un omaggio all’album di ‘Shout’, ‘Everybody Wants to Rule the World’ e ‘Head over Heels’, la dimostrazione che si possono vendere milioni di copie facendo musica in modo creativo

Foto: John Kisch Archive/Getty Images

È evidente che tra il 1981 e il 1986 stava avvenendo qualcosa di epocale nel mondo della pop music. Cito solo alcuni titoli: Vienna degli Ultravox, Hounds of Love di Kate Bush, Rio dei Duran Duran, The Colour of Spring dei Talk Talk, Remain in Light dei Talking Heads e, infine, l’oggetto di questo articolo: Songs from the Big Chair dei Tears For Fears, in questi giorni fresco quarantenne. Cosa univa questi album destinati a lasciare il segno da molti punti di vista? L’idea di un pop “allargato”. O meglio, progressivo.

Attenzione, quando si usa tale termine bisogna esser cauti. Non va infatti inteso (unicamente) nel senso di prog (termine che, già di per sé, racchiude una semplificazione non sempre positiva), di cambi di tempo, Moog, Mellotron e cavalcate rock sinfoniche. L’origine della parola denota movimento, progressione appunto. Se si parla in senso musicale, un qualcosa che non è congelato in uno stile preciso, con schemi irremovibili, ma si muove, si contamina, evolve. Evidentemente la lezione – e qui sì, torniamo al prog propriamente detto – di Yes, King Crimson, Genesis non era passata inosservata. Tutt’altro. Ma c’era di più. I giovani musicisti che si affacciavano all’alba degli anni ’80 erano spesso fan sfegatati di quella stagione del rock (Simon Le Bon ha più volte dichiarato tutto il suo amore per i Genesis), ma non dimenticavano che tra il loro presente e quel passato c’era stata di mezzo una bomba. Anzi un paio di atomiche: il punk e la new wave.

Ora, immaginatevi i vari Le Bon, Bush, Hollis, Ure in pieni anni ’80. Con l’art glam (altra grande rivoluzione che sta proprio in mezzo tra prog e punk) di Bowie e Roxy Music ben fisso in testa, ben vestiti e truccati (Duran), o trasformati in algidi manichini robot (ah, i Kraftwerk) anni ’50 (Ultravox), o in fatine dei boschi (Kate Bush), o in grungers ante litteram (Talk Talk). Immaginate questi alle prese con ciò che lo spirito Eighties pretende: canzoni. Non lunghe suite, non freddi Mensch-Maschine (ah, i Kraftwerk bis) o lerci punk. Pulizia, edonismo, musica da godere e da ballare. Basta menate. Eh no, avranno detto. Ok tutto, ma noi siamo cresciuti bevendo cocktail Genesis-Bowie, con una spruzzata di Sex Pistols e una dose generosa di Joy Division (o Gary Numan o qualsiasi altro eroe new wave ’78-’81). Quindi bene il pop, ma a modo nostro.

Fuori si fanno belli, perché il decennio è quello del look e delle riviste patinate e delle ragazzine urlanti in una sorta di nuova Beatlemania. Ma dentro no, le canzoni non sono quattro accordi e via andare. Sono ricche da ogni punto di vista, cangianti e inventive. Fanno muovere il culo e il cervello. Prendiamo a caso una Save a Prayer, hit che in Italia fece struggere milioni di adolescenti. È un connubio pop-folk-prog-elettronica con una melodia da brividi, arrangiamenti e accordi tutt’altro che scontati. Poi sì, i Duran erano belli da vedere e giravano i video in Sri Lanka, ma quanto succo c’era nel frutto. Poi: Vienna degli Ultravox, inno ipersinfonico, elettro-Beethoven, orchestre in corsa sulla Autobahn (ah… tris) e apertura gloriosa. Poi Talk Talk in modalità martellante pop-Stockhausen per Life’s What You Make It; Once in a Lifetime dei Taking Heads che manda l’Eno quartomondista in discoteca; la fatina Kate che diventa vera maga e inanella una suite da 20 e passa minuti (The Ninth Wave) electro-celtic-symphonic-avantgarde.

Ora, queste canzoni, e gli album da cui erano tratte, non erano roba per la nicchia. Chi più, chi meno, sono stati best seller da milioni di copie. C’era però in atto la bella abitudine di unire sacro e profano, di offrire singoli magari più appetibili per il grande pubblico (in taluni casi, nemmeno più di tanto) e usare l’album per sperimentare. Sperimentare! La parola d’oro che sempre più nel corso degli anni verrà meno, con la conseguenza di dischi che fanno l’impossibile per contenere solo singoli, magari orrendi.

Nel novero delle opere capitali del pop progressivo c’è chi arriva all’assoluto, unendo capacità esplorative a un successo senza precedenti (secondo posto nella classifica del Regno Unito, primo in quella americana, oltre 10 milioni di copie vendute). I Tears for Fears già dal nome non paiono oggetto spensierato. Il marchio del duo deriva da un trattamento psicoterapeutico sviluppato da Arthur Janov, con il paziente alle prese con le sensazioni dell’età perinatale. Un esordio (The Hurting, 1983) che fa del malessere adolescenziale la sua bandiera. Techno pop, new wave e melodie di grande presa (Pale Shelter, Change, Mad World) che sbanca in Inghilterra perché Roland Orzabal e Curt Smith hanno voci e look (specie il ciuffo e i codini di Curt), ma anche una voglia pazza di fare i pazzi e scombinare le carte (le stregonerie di The Prisoner) per ammaliare le giovani generazioni inquiete che cercano dal pop, qualcosa che li curi (“I must fight this sickness, find a cure”, cantava Robert Smith in quegli anni), che li faccia crescere, affinare i gusti. Che, cavolo, serva da stimolo a spaccare tutto, non li faccia affondare nel torpore e nel conformismo.

Quando nel 1985 i Tears for Fears giungono al secondo album molti gridano al miracolo. Songs from the Big Chair non rinuncia alle citazioni psicanalitiche, prendendo il titolo dal tv movie Sybil, storia di una donna affetta da personalità multipla che si sente al sicuro solo sulla sedia della psicologa, soprannominata appunto big chair. E già si parte bene, mica puntando in basso per arruffianarsi il pubblico. Poi, i due sono grandi fan di colui che, forse più di tutti ha tentato l’innesto pop-sperimentazione. E chi poteva essere se non uno che aveva usato il prog del decennio precedente proprio per allargare le maglie di tutto l’allargabile, in campo musicale? Peter Gabriel, reduce dei volumi III e IV della sua discografia, dove sono stati messi in campo talmente tanti miscugli e invenzioni da far girare la testa. E che proprio in questo periodo sta giungendo a quella che sarà la sintesi perfetta di So. Con bene in mente la lezione dell’ex Genesis, i Tears for Fears compiono il grande balzo: quello di concepire un album al tempo stesso fruibile/commerciale e di grande spessore artistico. Compito difficilissimo. Si tratta di comporre canzoni che spacchino nelle classifiche, vestendole in modo eclettico: elettronica, industrial, classica, jazz, rock e ambient. Unire per bene tutti gli elementi e scodellare la perfezione, uno dei dischi cardine del pop progressivo di tutti i tempi, una nave scuola per chi vuole capire cosa vuol dire fare successo a testa alta, senza calarsi le braghe.

Sei minuti e passa dura Shout, l’inno che non si leva più dalla testa, con le sue percussioni tribali, le rullate alla Phil Collins, gli strali di synth. Un mantra che si ripete ancora e ancora, e cresce, cresce, fino a esplodere nel solo di Orzabal, che in questo disco prende il sopravvento, componendo e cantando la maggior parte dei brani. Con Ian Stanley alle tastiere e Manny Elias alla batteria a darci dentro in un amalgama perfetto con i due leader. Sei minuti e passa, si diceva, ma ti prende e ti porta via, vorresti durasse l’intero disco. “In violent times / You shouldn’t have to sell your soul”, bisognerebbe ricordarselo sempre. Traccia due: The Working Hour è già un altro mondo. Mel Collins (King Crimson, ecc) al sax e Jerry Marotta (Peter Gabriel) alle percussioni. Atmosfere sospese, rarefatte ed epiche al tempo stesso. Quel certo tribalismo psichedelico che, più o meno sottopelle, copre tutto il disco. Figlio di III, IV e Remain in Light.

Everybody Wants to Rule the world è il gioiello pop perfetto di Orzabal (ma cantato di Smith). Riff arpeggiato-appiccicoso, vampate di synth ipnagogici very ’80s e un testo, tutt’altro che leggero, che si sofferma sull’innato desiderio di sopraffazione da parte dell’uomo. Il brano avrà un successo strepitoso in tutto il mondo, diventando uno degli inni per eccellenza degli anni ’80. Per contro Mothers Talk si immerge nell’oscurità con la sua batteria martellante, l’incedere industrial-funk, una coda lisergica della serie me ne fotto.

Le vere golosità però stanno nel lato B con quattro brani legati tra loro a formare una suite che copre l’intera facciata. Sorpresa nelle sorprese l’iniziale I Believe smette con i ritmi, a volte convulsi, e apre le porte a certo jazz d’ambiente. La voce di Orzabal si fa intima, si assottiglia, pare quasi di ascoltare Robert Wyatt. Infatti è proprio al celebre vate di Canterbury che il pezzo è dedicato («If he’s listening…», scrivono in copertina i due). Lo stesso Wyatt sarà omaggiato in maniera anche più intensa nella cover della celeberrima Sea Song, contenuta sul retro dell’edizione americana del singolo Mothers Talk. Un’apertura a 360 gradi dei Tears for Fears nei confronti della musica tutta.

Sulla coda di I Believe parte poi Broken che è un vero schiaffo di energia e si lega a Head Over Heels, altro immenso gancio radiofonico, con riff di piano irresistibile, così come il ritornello arioso che decreterà un ulteriore megasuccesso. Da lì si innesta una ripresa strumentale, ancora più nervosa, di Broken e si scivola verso Listen. Curt Smith di nuovo al microfono per il brano più sperimentale del disco, quasi sette minuti di ambient sinfonica, tra surreali cori femminili in un linguaggio inventato e un breve testo in cui l’oppressione della Guerra fredda si fa vivida. Finale che molla ogni freno e si fa solenne, pur mantenendo i tratti introversi che caratterizzano il pezzo.

Songs from the Big Chair è un viaggio emozionale che tiene la puntina del giradischi ben incollata al vinile (o il dito lontano dallo skip). Una sorpresa dietro ogni nota, un “cosa succederà adesso?” a ogni istante. Quello che ogni album degno di questo nome dovrebbe fare. Occhio infine alle b-side dei singoli (poi raccolte nelle varie edizioni deluxe), che nascondono i materiali più avventurosi del duo: oltre alla già citata Sea Song, cose come The Big Chair, Pharaohs, Empire Building, The Marauders e The Conflict si muovono spesso nell’ambient-industrial tout court. Ed è bello pensare all’ascoltatore non avvezzo alle stranezze che compra il singolo di Shout perché lo ha sentito alla radio e lo trova piacevole. E poi si ritrova The Big Chair sul retro. Magari gli fa schifo, magari pensa: interessante, proverò ad ascoltare anche altre cose del genere. E da lì si spalanca il mondo.

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