Rolling Stone Italia

Riascoltare con Mogol ‘Anima latina’, il disco di musica totale di Lucio Battisti

Battisti pop? No, Battisti progressive. Per i 50 anni del suo album ultra cult, un’immersione nel concept sulla possessività scritto con una gran fame di vita e d’avventura, non solo musicale

Foto press

Se diamo per vera l’affermazione per la quale il progressive rock è quel non-genere che prende vita grazie a un’unione di stili diversi, Lucio Battisti non può che essere considerato un artista progressive. Magari non a inizio carriera, quando era orientato verso un pop senza grosse pretese, ma dalla fine degli anni ’60 sì, assolutamente. Si pensi a un tormentone come Mi ritorni in mente, con una melodia ariosa dal sapore classicheggiante (i Moody Blues ne avrebbero fatto buon uso) e un utilizzo sapiente dei ritmi, prima veloci e poi rallentati fino all’apertura corale finale, che se fosse stato utilizzato un Mellotron potremmo parlare di Yes. Oppure alla coda psichedelica di Non è Francesca, non distante da certe sperimentazioni floydiane. O alle sospensioni atmosferiche di Emozioni, tra Tim Buckley e una PFM ancora da venire.

Battisti era un musicista estremamente curioso cresciuto in anni in cui la mescolanza di stili era all’ordine del giorno, quindi perché stupirsi se molta della sua musica potrebbe essere etichettata come progressive? Inoltre, mentre molti proponevano opere legate a modelli stranieri, Battisti (col Banco e pochi altri) cercava una via tutta italiana alla fusione progressive. A bene vedere quindi il vero prog italiano è più Battisti che Quella Vecchia Locanda, per fare un nome. Cosa è allora che fa inorridire molti appassionati quando si parla del Lucio nazionale come artista prog? Semplicemente il suo essere stato un fenomeno dal grandissimo successo commerciale, con i testi di Mogol distanti anni luce dai classici (e, a volte, involuti) testi prog e pezzi-tormentone come Il tempo di morire o La canzone del sole, che nessuno oserebbe definire progressive.

In molti pensano che il legame tra Lucio Battisti e il prog sia limitato ad Amore e non amore (1970, vi suona la PFM meno Pagani). Sbagliato, quel disco è solo il primo acerbo passo del cammino di Battisti verso un concetto di musica ad ampio raggio. Cammino continuato coi successivi Umanamente uomo: il sogno (1972), Il mio canto libero (1973) e Il nostro caro angelo (1973), con i sette minuti di Questo inferno rosa conditi da continui cambi d’umore e da un esaltante finale sinfonico-jazz-rock. «Questo inferno rosa» ricorda oggi Mogol «racconta di una mia ex fidanzata che avevo presentato a un amico. Siamo andati a fare una cena a tre poi loro si sono messi assieme. All’inizio era una donna libera, l’immagine di lei che fa vedere il seno sull’ascensore per scandalizzare il vicino è vera. Poi invece è diventata una signora borghese». La musica segue le emozioni, come nel frammento noise de Il fuoco, nel baccanale de La canzone della terra, nelle aperture sinfoniche de I giardini di marzo, di Vento nel vento, di Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, tutti connubi testo-musica che hanno del miracoloso. Mogol: «Quando scrivo un testo cerco sempre di capire cosa mi sta dicendo la musica, è come se le parole arrivassero leggendo tra le note, come se fossero già presenti e io dovessi solo tirarle fuori. Vedi “le discese ardite e le risalite”, le sentivo nella musica che andava su e giù, oppure in Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi era la melodia stessa ad essere esitante e io le sono andato dietro».

In definitiva gli album battistiani del 1970-73 rappresentano un grande laboratorio ove sperimentare con il linguaggio e con efficaci mix tra pop, folk, classica, tribalismo, psichedelia e avanguardia. Un percorso che troverà il culmine nell’album del 1974 Anima latina, uno dei più alti esempi di musica totale. Per chi scrive, il disco assoluto della musica italiana.

Da un certo punto di vista il percorso che porta Battisti a concepire un’opera del genere è comprensibile, visti gli umori progressive dei quattro album che lo anticipano. Ma qui siamo oltre, e quello che tutt’oggi, a 50 anni di distanza, non si riesce a concepire è come la fervida mente di Lucio abbia potuto compiere un balzo così ampio per concepire un disco avanti anni luce. Opera anzitutto una serie di scelte radicali: sposa in pieno le sonorità progressive, lascia ampio spazio ai momenti strumentali e compie una sorta di harakiri affossando la voce in fase di mixaggio tanto da farla sembrare immersa in un mare gelatinoso da cui a stento riesce a emergere. E già un cantante di enorme successo che fa una scelta del genere – sulla carta un suicidio commerciale – merita una statua solo per la faccia tosta e il coraggio. «Lucio mi disse che aveva fatto così perché voleva che gli ascoltatori drizzassero le orecchie per capire cosa stava dicendo», ricorda Mogol. «Io gli dissi: guarda che ti limiterà le vendite. Non volle sentire ragioni».

Poi c’è la musica, un caleidoscopio di suoni che, come coriandoli impazziti, appaiono, scompaiono e sfuggono in ogni parte. La cura certosina nella scelta di questi frammenti, che messi assieme vanno a costruire l’arrangiamento, è un’opera di genio, da Leonardo Da Vinci della musica. Con non pochi stimoli da parte del paroliere. «Volevo spingerlo a scrivere dei brani importanti, che non fossero solo hit da classifica. Riconoscevo in lui possibilità ancora più grandi e vedevo che lui mi dava retta, mi dava sempre retta». Lucio quindi osa concependo Anima latina come un concept dedicato alla possessività amorosa in tutti i suoi risvolti. «In quasi tutti i brani c’è una figura ricorrente di donna possessiva dalla quale io fuggo», spiega Mogol. «In gran parte dei miei testi dell’epoca c’era questo desiderio di libertà. Ma io ero così: un’esplosione, un’esplosione umana. Se c’era un’avventura mi ci cacciavo, anche nella più pericolosa. Ero affamato di vita».

L’album si apre con Abbracciala abbracciali abbracciati (Mogol: «Lucio pretendeva che io pensassi a titoli lunghi, così mi adoperavo per accontentarlo»), un lento vortice di quasi otto minuti tra tastiere iridescenti e fiati in gran spolvero che introducono e accompagnano la voce (o ciò che ne resta) abbandonandola poi in una cavalcata sinfonica. Verso la fine del pezzo un’apertura a tempo dimezzato lascia spazio alla ripresa del tema iniziale e a una coda che sfocia in Due mondi, forse il brano più vicino al Battisti pop ma con in più sprazzi di elettronica, effetti sonori, altri fiati, percussioni latine e un sofisticato arrangiamento di chitarre, vere e giocattolo. Lucio qui duetta con Mara Cubeddu (Daniel Sentacruz Ensemble) che esegue la sua parte al limite della stonatura, in maniera sguaiata, quasi soffocante nella sua disperata possessività.

Con Anonimo torna la calma. «Questa canzone racconta la mia vita», dice Mogol. «Quando avevo 10 anni al pianterreno c’era una vedova con un bambino. La vedova aveva 21 anni ed era molto bella, così io aspettavo che lei andasse a stendere la biancheria e quando si alzava in punta di piedi potevo guardare sotto le gonne». Un tuffo nel passato e un brusco risveglio nel presente, con le tastiere che si aprono su scenari Krautrock di marca Tangerine Dream, stacchi alla Gentle Giant, un flauto su un arioso 5/4 + 7/4 e il culmine di una ripresa bandistica del tema principale de I giardini di marzo a simboleggiare il risveglio sessuale del protagonista. Senza pause ecco Gli uomini celesti, dolcemente acustica ed elettronica, nella quale si avvertono atmosfere alla Radiohead con trent’anni di anticipo.

Il lato B è inaugurato dalla ripresa del pezzo procedente, più scalmanata e con una frase vocale senza testo destinata a stamparsi nella memoria e da un’ulteriore reprise, quella di Due mondi, con piano e voce a chiudere il cerchio. Poi il clima si fa surreale con Anima latina, nata dalle impressioni di un viaggio in Sud America. Mogol: «Io e Lucio eravamo stati in Brasile e io ho scritto quelle parole – un piccolo testo, quattro pennellate – con le mie impressioni su quel Paese: le favelas, la pubblicità su un pezzo di latta, la stessa che usavano per costruirsi le loro abitazioni». La canzone è tutto meno che uno spaccato da cartolina, è bensì un canto ipnagogico alla miseria che convive col consumismo sfrenato. La musica è percussiva, jazzata e sinfonica, vera e propria fusion anni prima che questo termine fosse coniato. Come un Caetano Veloso a spasso col Perigeo in un tunnel spazio-temporale ove si odono echi di un futuro David Byrne.

Quando arriva Il salame ci si avvicina addirittura alle avanguardie della Tonto’s Expanding Head Band: momenti sospesi, nastri al contrario, voci effettate e una sezione centrale che è un incubo travestito da sogno. «Il salame è la storia vera di me e Titti, una delle mie prime fidanzatine quando ero bambino», spiega oggi Mogol. «Abitava a un metro da casa mia e nella canzone ci siamo noi due che non sapevamo come si faceva l’amore. Alla fine abbiamo lasciato perdere e abbiamo preferito mangiarci il salame che era nel frigo».

Il finale sinfonico introduce La nuova America, nella quale i fiati fanno la loro ricomparsa su una pletora di chitarre acustiche e cori. L’incipit di Macchina del tempo si basa invece su un riff in 7/8 di tastiere a introdurre il il canto. Qui la voce, oltre che sommersa, è anche trattata con diversi effetti e il clima si fa sempre più allucinato tra sospensioni, cambi di tempo, aperture, distorsioni, atonalità e pause acustiche. «Macchina del tempo rappresenta la confessione: se qualcuno limitava la mia libertà io fuggivo in cerca di qualcosa di nuovo. Quando Lucio canta “Ed io voglio mai perdere nessuno / E nessuno che perda mai me” riassume il concetto del disco. Io adesso sono un uomo molto diverso, ma all’epoca ero così, ero terrorizzato da qualsiasi catena, volevo mangiarmi il mondo».

Alla fine la canzone implode su se stessa in una reprise di alcuni momenti del disco (in primis le follie percussive della title track) che poi si perdono in un buco nero. La breve Separazione naturale chiude l’LP in uno straniante frammento per elettronica e voce che non risolve e non conclude nulla ma lascia un grande interrogativo: da quale dimensione è potuta scaturire questa musica, questo suono che è oltre le più brillanti sperimentazioni di Eno, Gabriel, Fripp o Bowie? Se il progressive guarda oltre Anima latina è oltre il guardare oltre.

Archiviata tale esperienza (che nonostante le peculiarità raggiungerà la ragguardevole cifra di 250 mila copie vendute) la poetica di Battisti si mischia con altre influenze: col funk, con la disco music imperante all’epoca e con l’elettronica. Ma il discorso progressive non si esaurisce, semplicemente aggiunge elementi in più e crea un suono sempre più personale. Non parliamo poi della cinquina di dischi inanellata tra il 1986 e il 1994 con l’ausilio del nuovo paroliere Pasquale Panella. Questi album sono puro astrattismo musicale, un mix sonoro che sfugge a qualsiasi catalogazione. Battisti riprende la lezione di Anima latina spingendosi in territori inesplorati ove il pop si espande e si “avanguardizza” in una maniera che, nel 2024, non ha ancora trovato epigoni. Forse perché (ancora) troppo avanti.

Iscriviti