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Riascoltare i Formula 3 per capire la grandezza di Alberto Radius

È spesso ricordato come braccio destro di Battisti e Battiato o relegato al circuito della nostalgia, ma è stato musicista fuori dagli schemi, produttore audace, autore spiazzante, interprete riconoscibilissimo
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Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

La scorsa estate ho deciso di colmare una lacuna nella mia discografia in vinile: ho comprato il secondo album dei Formula 3, che mi aveva fortemente ossessionato negli anni. Questo soprattutto per la presenza di Nessuno nessuno, brano firmato Battisti-Mogol dalla durata di ben 11 minuti, caratterizzato da una impro finale hard rock tra le più gasanti della storia italiana. Comprando la ristampa della Numero Uno, in vinile arancione, mi sono conto che il brano durava quattro minuti. Avevano incredibilmente inserito la registrazione su 45 giri del pezzo eliminando l’originale: una cosa indecente, ma è esattamente quello che succede quando di un artista si vuole ricordare solo la parte più “comoda”, sbarazzandosi della sua variegata personalità.

Alberto Radius, il guitar hero dei Formula 3, nei coccodrilli è ricordato soprattutto come la chitarra di Battisti e Battiato. Gli stessi Formula 3 sono citati come la “costola rock” del Lucio nazionale, come se da soli non fossero in grado di essere influenti sulla nostra musica. Per molti Radius era un personaggio “al servizio di”, grande solo in quel ruolo e per il resto ciao. Era invece una personalità musicale e umana complessa e piena di grandissime risorse, un vulcano, uno che non ha mai smesso di sperimentare le sfaccettature musicali più ardite, al quale i ruoli stavano stretti.

I Formula 3 sono stati una band formidabile e senza la sua ruggente chitarra non avrebbero bucato l’immaginario di chi all’epoca in Italia voleva iniziare a suonare “diversamente”. Finalmente avevamo qualcuno che poteva diventare il nostro Hendrix, coi ragazzini a cercare di imparare il riff mozzafiato di Questo folle sentimento chiusi in cameretta, pronti ad uscirne e fare colpo a qualche festa. Ma in realtà c’è di più: Radius era il nostro King Buzzo prima che quest’ultimo cominciasse a fare dischi. Ascoltando i Formula 3 sembra che i Melvins e i Nirvana si trovino catapultati nei ’70, in un posto musicalmente arretrato come l’Italia. Ascoltando album quali Dies irae o Sognando e risognando ti rendi conto che sono più vicini a una specie di proto noise rock che all’hard di importazione inglese, a volte sfiorando delle intuizioni hypnagogic come se fossero entrati nella macchina del tempo.

Radius con la chitarra guardava avanti, mettendo insieme la tecnica con qualcosa di diretto, efficace, tagliente, post punk. Senza Radius, Battisti non avrebbe mai avuto cose come la chitarra di Confusione, anche lì roba che ricorda i Public Image Ltd, ma siamo nel 1972, non avremmo avuto il suono e la passione da kraut italiano di Anima latina e in generale non avremmo avuto la spinta rock/psichedelica che Battisti cercava nei suoi pezzi.

Non era accondiscendente il suono di Radius, nessun compromesso: già nella sua esperienza con la band si sente un tentativo di sintesi che porterà alle esperienze con Battiato, di cui sarà molto più di un braccio destro. Tutti i dischi del cantautore siciliano fino a Mondi lontanissimi sono nati nel mitico Studio Radius dove il musicista affiancava Battiato nella produzione e negli arrangiamenti, sperimentando soluzioni ardite e soprattutto modellando il suo stile chitarristico trasformandolo da virtuoso con un suono gonfio e caldo a chirurgicamente new wave con una vibe fredda e precisa senza perdere un filo di cattiveria.

Come produttore, poi, Radius è stato un genio, un pittore “quadrato” alla Mondrian: ricordiamolo dietro il desk a plasmare il mondo di Faust’o e della sua wave allucinata , clamorosa in Suicidio e Poco zucchero. Lo ricordiamo come grandissimo autore, ad esempio con la Bertè (i clamorosi brani metropolitani come La goccia e Folle città portano la sua firma) o con Giuni Russo (nel capolavoro Energie le dona la meravigliosa e struggente Il sole di Austerlitz). Lo ricordiamo anche negli esperimenti improbabili di disco punk-rock con Nadia Cassini o per una sequela di singoli space disco/Italo di personaggi fantomatici che se non hanno fatto la storia del genere lo hanno comunque consolidato. E lo ricordiamo per le produzioni della Battiato factory, una meglio dell’altra (si va appunto da Giuni Russo a Giusto Pio, Alice, Mino De Martino, Sibilla, Francesco Messina, tutti bene o male capolavori). È anche coinvolto in dischi gioiellino di cui pochi si ricordano, come Il nibbio di Raffaele Mazzei o Con & senza cravatta di Manrico Mologni, cantanti italiani di nuova generazione, probabilmente antesignani dell’It pop anche grazie a lui.

Radius era anche un grande interprete, un cantante riconoscibilissimo, personale, autore di dischi solisti di livello eccelso che sono pietre miliari nella discografia italiana. L’esordio folgorante di Radius nel ’72 sfocia in un jazz-rock/impro allora pioneristico in Italia che in un sol colpo permette a Battisti di scrivere il suo primo testo nichilista sotto falso nome (Prima e dopo la scatola) e a una band “riot” di fondarsi di sana pianta (stiamo parlando degli Area che appunto nascono nella jam che dà il titolo a un pezzo di Radius).

Perché Alberto Radius scriveva e cantava cose scomode (i testi del suo sodale Oscar Avogadro e Daniele Pace, il capoccia degli Squallor). In Che cosa sei ci metteva già in guardia dalla società dello spettacolo (Popstar), in Carta straccia ci sono riferimenti espliciti alla droga, al disagio (Un amore maledetto, Nel ghetto), con uno sperimentare col linguaggio del funk-rock intriso di elettronica cosmic. America Good-Bye contiene Poliziotto, atto d’accusa contro lo strapotere delle forze dell’ordine, ancora attualissima. Leggende è un disco pop che accarezza lo yacht rock, cesellato da un orefice. E il suo disco new wave del periodo Battiato, Gente di Dublino, è un capolavoro di tecnologia applicata alle nuove tentazioni robotiche, ancora una volta con testi di denuncia (come l’ironia al vetriolo di Non metteteci la bomba). Ma anche Elena e il gatto è un disco in cui l’elettronica sfiora l’Italo disco, mentre la chitarra di Radius entra perfettamente in un contesto a lei apparentemente alieno con la sua abrasività e il suo “parlare” al di là dello stile di partenza.

Radius era uno che non aveva peli sulla lingua, cantava e suonava cose che non rassicuravano ma anzi, alimentavano dubbi: un ribelle del pensiero. E infatti la seconda emanazione della sua militanza in una band, il Volo, nel 1974 spiazzò un po’ tutti: è prog? È jazz-rock? Nel primo album c’è Mogol ai testi, ma nel secondo è praticamente tutto strumentale, ma allora sono commerciali o no? E come fanno ad esserlo se sono così tecnici? Nel Volo Radius sperimenta una chitarra che sa essere essenziale eppure pirotecnica: usa la chitarra synth come assoluto pioniere, ricavando suggestioni che i suoi colleghi all’epoca guardavano male e alle quali si avvicineranno solo negli anni ’80.

Foto: Mondadori via Getty Images

Alla fine del decennio verrà risucchiato nell’ottica perniciosa della nostalgia dei fantastici anni ’60. Prima nel 1986, con i vari Sapore di mare, nell’89/90 partecipa alla trasmissione Una rotonda sul mare di un Red Ronnie in vena di luoghi comuni. L’innovatore di razza è costretto dal motto “o tempora, o mores” a suonare per un’orchestrina come quella dei Cantautores, il guitar hero diventa accompagnatore di vecchie canzoni di anziane cariatidi (quando invece fino ad allora era stato il nerbo di alcuni dei dischi più riusciti e spartiacque di Alberto Camerini, Finardi, Patty Pravo).

Sono gli anni ’90 del berlusconismo che avanza: che la sua scelta sia nata per gioco o necessità per sopravvivere a un mondo sempre più rampante, Radius finisce in un calderone generalista che non gli appartiene. Fortunatamente produrrà anche cose importanti come Filosofia dell’aria o Questo soave sabba degli Underground Life, tornando, fino al ’93, in parte allo spirito di partenza, che ritroviamo anche nella sue ultima prove soliste, Banca d’Italia del 2013 e Antichi amori del 2017, passati inosservati ma ancora in grado di graffiare. Pubblica sempre meno anche a causa della malattia, che non gli impedirà comunque di andare a Sanremo come ospite dei Coma Cose, che nonostante le buone intenzioni, ancora una volta, non interpretano una canzone di Alberto ma il “prevedibile” Battisti.

È il solito tagliare il minutaggio del vinile della vita, a uso e consumo dei gusti massificati. Per noi Alberto è invece quella voce e quella chitarra fuori dagli schemi, che danno la pelle d’oca in Storia di un uomo e di una donna. Un soul irripetibile di uno di quegli artisti che nascono solo una volta nella storia del mondo. “Ma è normale che finisca così / muore sempre l’ entusiasmo di un sì”. Grazie Alberto.

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