In giovinezza Mozart scrisse minuetti, valzerini, pezzi semplici e divertenti che già facevano intuire il genio. Mi veniva in mente durante l’ascolto di Buonanotte fiorellino. Anche un gigante del cantautorato nostrano come Francesco De Gregori si è concesso il suo momento di svago in una canzone d’amore leggera, di una poesia quasi fanciullesca. Con accordi abbastanza (ma non del tutto) semplici e solo una modulazione di un tono (dal Mi al Fa#) per dare ricchezza. De Gregori e Mozart, Mozart e De Gregori. Credo che l’austriaco avrebbe amato il romano per le sue costruzioni armoniche vestite di apparente semplicità. Non credo che avrebbe mai apprezzato musica che non conteneva accordi, che non conteneva armonia. L’armonia, più della melodia, fornisce carattere alla musica, crea immagini, smuove le emozioni. Una musica senza accordi è come sale senza minestra.
Di accordi De Gregori se ne intende, e se ne guarda bene, nel suo primo album di successo, Rimmel del 1975, di infiorettare le sue canzoni di giri di Do a caso (per chi non conoscesse la materia: il più classico e scontato dei giri armonici, quello su cui è basato il 99% del mainstream attuale, le poche volte in cui decide di usare accordi), cerca invece il passaggio inaspettato, a volte forza le armonie in soluzioni inaccettabili per chi ha studiato teoria musicale e rispetta le regole. Ma come per tutti gli autodidatti (ne cito solo un altro piuttosto celebre: Paul McCartney) le regole non esistono. Chi le ha decise? Perché non posso inserire tutti gli accordi che voglio nella sequenza che voglio?
Lo sentite quel fremito in Pablo, quando De Gregori canta “Mio padre / Seppellito un anno fa”, quel passaggio dal La-7 al Re? Nei trattati di armonia tale intervallo non è consueto, ma per De Gregori lo è, crea una tensione che da subito incolla orecchie e spirito alla sua creazione. E che dire di tutti i diminuiti in Pezzi di vetro? Qualcuno più, nella musica del presente, utilizza accordi diminuiti? Re minore nona, Mi minore settima… Ascolti il brano e quei passaggi sfiorano qualcosa. Lì si capisce che non si tratta unicamente di grappoli di note ma di momenti in cui l’animo si incrina. E ci sono anche i rivolti jazz di Quattro cani, gli impervi passaggi della title track, le ombre armoniche di Le storie di ieri, quelle folk di Piccola mela (ispirata da un canto sardo). Insomma, da sempre quando si parla di De Gregori si sofferma sulla sua poetica, ma fate caso anche alle architetture musicali che utilizza, tutti espedienti che rendono le parole anche più ficcanti, giuste, vere. La parola insieme alla melodia e all’armonia: questa è la ricetta. Il substrato sonoro è in grado di innalzare il messaggio, renderlo poesia.
Altre cose di cui si parla poco: gli arrangiamenti e i musicisti. Nel fresco 50enne Rimmel, De Gregori strimpella e arpeggia di par suo. Fa bene, non potrebbe fare meglio. Non ha bisogno di mostrare le sue doti di strumentista, dalle dita alle corde ciò che vuole comunicare è la forza delle canzoni. E non ci sarà altro chitarrista al mondo, anche il più esperto, a suonare quei brani come li suona lui. Forse con scarsa perizia, ma con verità. Avete presente Battisti? Era perfetto vocalmente? No. Funzionava? Alla grande. Francesco poi, come Lucio, non lesina sui musicisti, ottimi, che in questo caso non eccedono in nulla. Renzo Zenobi arriva lì dove il leader non riesce, si dà da fare alla solista acustica e imbelletta il tutto. Poi c’è un jazzista di razza come Mario Schiano, c’è il contrabbasso di un altro jazzman come Roberto Della Grotta, c’è il gruppo italo-inglese dei Cyan a fornire le basi, con i ritmi in punta di bacchetta di Franco Di Stefano. In Rimmel tutto procede per sottrazione, tra pop, jazz e folk. Gli arrangiamenti si fanno minimali, non c’è altro che l’essenziale a creare barchette di carta che navigano lisce in un lago al tramonto.
A definire il tutto la voce. A casa mia, quando ero bambino, il canto di De Gregori echeggiava di continuo. Un fratello maggiore lo ascoltava e lo suonava, imitandone il timbro. De Gregori era la voce di casa, il luogo confortevole nel quale rifugiarsi. Al di là di ciò che cantava, era il suo modo, i colori di un canto senza alcun tipo di virtuosismo, leggero come una brezza estiva, intimo come un camino acceso in una notte di neve.
Tutto questo e molto altro ha decretato il successo di Rimmel, quasi mezzo milione di copie vendute in un momento storico in cui non è che in classifica non ci fosse pop di facile ascolto. Uno sguardo veloce alla hit parade del gennaio 1975 vede sfilare Un corpo e un’anima di Wess & Dori Ghezzi, Kung Fu Fighting di Carl Douglas, Sugar Baby Love delle Rubettes, Sereno è di Drupi, Felicità tà tà di Raffaella Carrà. Nel senso: la musica commerciale è sempre esistita, ma quando arrivavano opere del calibro di Rimmel nessuno poteva rimanere indifferente. Si drizzavano immediatamente le orecchie, come a dire: ok balliamo e divertiamoci con le canzonette, ma per emozionarsi ci vuole De Gregori. Il desiderio di emozionarsi, è solo questo che fa la differenza tra allora e oggi.
In un panorama tra muzak e opere di grande spessore, De Gregori pagherà caro il suo successo. Chi lo vedeva come cantore dell’impegno politico è costretto a interfacciarsi con la sua presunta commercializzazione. Avvenuta solo in virtù delle copie vendute, non certo del contenuto delle canzoni di Rimmel, che non si distanziano molto da quelle dei precedenti Alice non lo sa (1973) e De Gregori (1974), solo si fanno più limpide, più diritte allo scopo di emozionare in molti modi, sia a livello dei sentimenti, sia da quello dell’impegno. Ma tant’è, molti estremisti dell’epoca videro tutto ciò come un tradimento, con la conseguenza del “processo” in pubblica piazza (il 2 aprile 1976 al Palalido di Milano) del povero cantautore che si vedrà costretto a ripiegarsi su se stesso e sparire dai palchi per tre anni. Quando tornerà a esibirsi il mondo sarà già un’altra cosa.