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Riccardoni e nostalgici, è ora di rivalutare gli Yes hi-tech

Da dinosauri progressive a laboratorio sperimentale: elogio dei cinque album che a cavallo tra anni ’70 e ’80 hanno deviato (momentaneamente) la traiettoria della band

Foto: Fin Costello/Redferns

All’erta riccardoni e nostalgici del progressive! Sono tornati gli Yes con un nuovo album dal titolo Mirror to the Sky e un tour dedicato allo storico Relayer che è stato posticipato al 2024, una data che sa già di futuro. Di futuro nel nuovo disco sembra invece esserci ben poco. Gli Yes si sono rifugiati da un bel pezzo nello status di classici e in quanto tali esenti dal dover dimostrare chissà che. C’è stato però un tempo in cui sfidavano i luoghi comuni del prog da dinosauri, proiettandosi in avanti attenti a nuove sonorità, nuove soluzioni compositive e soprattutto nuove tecnologie.

Quando li davano per finiti, eccoli trasformarsi in un laboratorio sperimentale per esperienze che influenzeranno la musica a venire e i suoi sviluppi. Sono cinque i dischi in cui possiamo trovare degli Yes preveggenti (e non a caso spesso i più osteggiati dallo zoccolo conservatore dei fan): andiamo a riscoprire questi Yes “hi-tech” e le loro felici intuizioni.

Chiese e grattacieli

Nel 1974 gli Yes registrano Relayer, che rappresenta un momento di passaggio fondamentale innanzitutto perché Rick Wakeman se ne va appena dopo l’uscita di Tales from Topographic Oceans, che è uno dei picchi prog della band. Il tastierista è in cerca di maggior semplicità e non apprezza l’eccessiva complessità e lunghezza dei brani. Che avesse visto lungo circa la necessità del prog di tornare coi piedi per terra è confermato dal suo rientro in formazione nel 1977, quando gli Yes diventano orfani del sostituto Patrick Moraz, ex Refugee, che introduce elementi fusion nella band. La maggiore novità di Going for the One è appunto la stringatezza dei pezzi: non più sfiancanti suite, ma un tentativo di comprimere il rock barocco all’interno di pochi minuti, annusando la rivoluzione punk e in un certo senso procedendo paralleli allo sviluppo del pronk.

Going for the One inaugura anche sonorità proto new age, tre anni prima mancate per un soffio a causa del rifiuto di Vangelis di unirsi alla band. Wakeman non lo fa rimpiangere, anzi amplia la gamma dei suoi strumenti acquistando un Polymoog fresco di fabbrica, mentre l’ingegnere del suono John Timperley predilige atmosfere dominate dall’eco, usato per la prima volta in maniera massiva, e il suono generale sembra più curato, levigato e definito. Per registrare l’organo della chiesa di San Martino a Vevey, a pochi chilometri dagli studi di Montreux, Timperley suggerisce di impiantare una linea telefonica da far entrare nel banco del mixer, una specie di registrazione via rete ante litteram. Altra novità è la copertina non più dominata dalle scene fantastiche di Roger Dean, di cui viene mantenuto solo il logo del gruppo. Al loro posto un’immagine futuristica a cura dello studio Hypgnosis che vede un uomo nudo di fronte a grattacieli e linee geometriche che anticipano lo strapotere della computer graphic.

Il disco per molti rappresenta l’ultimo guizzo prog, per altri l’inizio dell’era pop della band, che abbandona il terreno sperimentale. Trattasi di un frullato di tutte queste cose nel tentativo di farne qualcosa di orecchiabile, ma “colto”. Dal punto di vista commerciale funzionerà, ma è evidente che gli Yes rimangono complessi, intricati e a loro modo estremi e che le melodie sono solo uno specchietto per le allodole.

La pecora nera

L’album successivo Tormato nasce tra tensioni di vario tipo, tanto che col passare del tempo nessun brano del disco troverà posto dal vivo. A parte la storia della copertina presa a pomodorate perché non gradita a Wakeman in quanto troppo minimale, a parte la leggenda dei missaggi fatti senza inserire il Dolby A che era prassi del sound engineer Eddy Offord, l’album ha una reputazione disastrata. Ci troviamo di fronte a uno strappo innovativo. Innanzitutto la band si produce per la prima volta da sola, in un impeto DIY che sa di adesione implicita alla attitude punk. In questo senso, sia per il sapore lo-fi, sia per i brani che suonano più taglienti e semplificati, Tormato guarda a un inedito ibrido tra due mondi all’apparenza inconciliabili.

Dal punto di vista della strumentazione, Wakeman introduce un’ennesima novità, il Birotron, una specie di Mellotron portatile riveduto e corretto nello sviluppo del quale il tastierista è coinvolto (un tentativo di orientarsi verso i campionatori che verranno). Squire smanetta con gli effetti Mu Tron, sfoderando tra le tante cose una distorsione piuttosto aggressiva, mentre White usa un effetto ADT per doppiare la batteria e renderla più possente. Anderson canta in maniera più acuta e stridente, come un Lydon del prog, mentre il chitarrista Steve Howe sembra sempre più lanciato verso il guitar synth tanto da confondersi spesso con il suono delle tastiere di Wakeman. D’altronde pezzi come Arriving UFO hanno temi futuristici e addirittura vapor fantasy (se pensiamo a Circus of Heaven popolata da unicorni e fate). Insomma, col suo suono compresso e imperfetto Tormato è, se non proprio anticipatore di un certo gusto weird, sicuramente una pecora nera: l’album più anti-Yes di tutti. Se non è innovazione questa…

La Devo-luzione

Per molti l’inzio della fine, per altri (come il sottoscritto) il miglior disco degli Yes degli anni ’80, se non altro per la formazione sulla carta assurda che mette insieme i Buggles (sì, la premiata coppia Trevor Horn-Geoff Downes, quelli di Video Killed the Radio Star) con gli Yes orfani di Jon Anderson e Rock Wakeman per divergenze insanabili. Galeotto è il medesimo manager delle due band, ma soprattutto il fatto che i Buggles sono grandi fan degli Yes. Ovviamente con un genio dello studio come Horn, gli Yes trovano nuova vita lanciandosi nella new wave e nelle sofisticate tecnologie del duo. Che chiaramente non brilla di virtuosismo, tanto che i live di Drama saranno appunto drammatici per il fatto che Horn non regge lo stress vocale dei pezzi (ma Anderson nonostante la tecnica aveva avuto lo stesso problema con l’esecuzione live di Tormato, quindi…). E meno male. I nuovi Yes sembrano infatti una versione Devo-luta del loro passato avventuroso riveduto e corretto per il domani. Tant’è che Downes porta in seno alla band abbondante uso di vocoder e soprattutto il primo esempio di Fairlight, che proietta gli Yes tra i pionieri nel mondo del campionamento. C’è spazio anche per altre nuove tendenze musicali in crescita come ad esempio l’heavy metal, che trasuda dalle corde di uno Steve Howe ringiovanito. Esempi lampanti di come gli Yes spingano in questa formula sono Machine Messiah, il pazzesco singolo Does It Really Happen?, la Fairlight-oriented White Car. Ma basta vedere il look occhialuto di Horn, capello corto e montatura stile cantante dei Vibrators, per capire che il prog finalmente ha voltato pagina.

Gli incubi dei robot

Dopo l’esperienza intensa di Drama e oramai sgretolati i Buggles, Downes va a formare la superband Asia, che sbanca le classifiche con il suo AOR vagamente sintetico. Horn si dedica alla produzione con la sua etichetta ZZT tirando fuori dal cilindro alcuni dei progetti più avant pop e di successo degli anni ’80: Frankie Goes to Hollywood, Propaganda, Art of Noise sono solo alcuni dei nomi che sotto l’ala di Trevor diventano galline dalle uova d’oro. Horn rimane quindi negli Yes come produttore, mantenendo quell’impeto futurista che serve a dare propulsione alla band. Che inizialmente si arrende all’evidenza che gli Yes in quanto tali sono belli che scaduti, e con la formazione composta da Squire, Howe, il membro storico Tony Kaye e il giovane chitarrista sudafricano Trevor Rabin (ex Rabbitt), si fanno timidamente conoscere al pubblico con il nome di Cinema. Quando arrivano minacce di denunce da gruppi con lo stesso nome, pensano che forse è il caso di tornare alla sigla originaria. Anche perché nel frattempo Anderson viene convinto a tornare, garantendo continuità col passato. Che in un certo senso è ancora una volta scavalcato, grazie anche a Rabin, chitarrista versatile che porta un sound innovativo fatto di compressioni, effetti digitali spaziosi e un gusto che fonde la new wave con l’hard rock. Da parte sua Horn ai concentra sulle macchine, sperimentando per la prima volta col Synclavier con il quale monta addirittura parti vocali, oltre a campionare in maniera sfrenata.

La grafica di copertina di 90125 è computer graphic pura che abbandona le tentazioni fantasy di una volta, il titolo del disco è il glaciale numero di codice della pubblicazione. Una visione robotica, da produzione in serie, che mette gli Yes sul piano simbolico dei minimal wavers coevi. Il video di Owner of a Lonely Heart allo stesso tempo è un gancio con l’estetica industrial. Girato da Storm Thorgerson della Hypgnosis (nella quale non a caso lavorava anche il Throbbing Gristle Peter Christopherson) è paranoico e inquietante con il suo bestiario da astinenza di droghe e le sue scene estreme (vermi in faccia, scorpioni che camminano sulla testa, boa intorno al collo). Il video diventerà il simbolo della “perdizione” anni ’80 e il disco ha un grande successo, proiettando gli Yes nelle menti delle nuove generazioni che di prog sanno meno che zero, ma che da quel momento andranno a riscovarsi Close to the Edge (è il mio caso).

Il suono dei calcolatori

Prodotto e registrato tra Italia Inghilterra e Stati Uniti, Big Generator è all’insegna del motto squadra che vince non si cambia. Horn rimane in produzione anche se è meno motivato, soprattutto a causa di frizioni col tastierista Tony Kaye che si rifiuta di cedere il passo alla tecnologia, e insieme a Rabin tenta di spingere oltre la formula di 90125. Ad esempio glissando la pressione della casa discografica per tirare fuori una nuova hit come Owner of a Lonley Heart e tentare un approccio più audace, ispirandosi in questo senso a Abbey Road dei Beatles e quindi all’assemblamento di pezzi abbozzati per crearne di interi. La durata media dei brani si allunga verso i sette minuti a sfidare le regole radiofoniche. Anderson si spinge a scrivere brani di ispirazione stravinskiana, istigando alla follia musicale senza remore. Il suono diventa sempre più freddo, come se uscisse direttamente da un calcolatore elettronico (mai titolo fu più calzante di Big Generator).

Volendo dirla tutta, qui abbiamo il disco più tecnologico di tutta la storia degli Yes. Un costosissimo e sofisticatissimo sistema di Synclavier viene infatti usato quasi come multitraccia, così come un Oberheim customizzato permette maggiori prestazioni di hard disk e campionamento, l’innovativa workstation D50 della Roland, all’epoca appena messa in giro, primeggia con i suoi suoni inauditi. Il batterista White acquista una drum machine a pad Dynacord ADD-One nuova di pacca e ci sperimenta su portandosi dietro direttamente il sound designer Reek Havoc, cercando un assetto futuristico. Leggenda dice che il tempo in studio trascorreva principalmente nello scegliere quale aggeggio usare per le registrazioni piuttosto che suonare. Questa maniacalità nell’utilizzo delle nuove risorse nonché la perenne insoddisfazione nei risultati produttivi farà lievitare di molto i costi arrivando a un picco di spesa di due milioni di dollari.

Nonostante questa spinta sull’acceleratore della tecnica e su nuovi metodi compositivi, il disco non bisserà il successo del precedente, dissolvendo ancora una volta gli Yes: non aiuterà neanche la copertina, ancora una volta votata alla computer graphic, nonostante colga perfettamente l’atmosfera dell’album. Certo, c’è anche un altro tipo di innovazione in questo disco, che è quella di una certa attitudine al party a base di sostanzine stupefacenti. Soprattutto nella fase italiana al Castello di Carimate, la situazione comincia ad andare fuori controllo, cosa che convincerà Rabin a spostare tutto a Londra onde evitare ulteriori “sfasci”. D’altronde Rhythm of Love parla proprio di sesso nel senso più “basso” del termine, tema inusitato per gli Yes, sempre rivolti a temi “alti” e cosmici. Nei successivi album scenderanno a più miti consigli.

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