C’erano una volta due band sulla West Coast che volevano fare la rivoluzione. Si trattava in realtà di un musicista con in testa un piano grandioso: annientare l’industria discografica, riportare in auge un megarevival del rock psichedelico anni ’60 e conquistare il mondo. Questo cantante-polistrumentista si chiama Anton Newcombe ed era il leader di una band di San Francisco che vantava uno dei nomi più belli di tutti gli anni ’90: Brian Jonestown Massacre. L’unica cosa migliore del nome era la musica che facevano, che replicava in modo sorprendente i suoni vintage e lisergici della golden age di Haight Street. Grazie al talento prodigioso di Newcombe e alla sua prolificità, i BJM (così li chiamavano) non erano uno scherzo divertente o un’operazione nostalgia. Trasformavano in qualcosa di personale i suoni lisergici del passato. In un mondo post grunge e post Green Day, avevano scritto in fronte “next big thing”.
Intanto a Portland, Oregon, anche Courtney Taylor e il suo gruppo che aveva un nome altrettanto strafigo, Dandy Warhols, si rifacevano alla psichedelia della vecchia guardia, affilandola però con un piglio alternative rock. Hanno incontrato i BJM durante un viaggio a San Francisco e li hanno subito considerati spiriti affini per via della musica, delle droghe, dello stile di vita bohémien. Fra Newcombe e Taylor si è creato un bel legame. Per il primo, Taylor e i Dandy erano complici nel tentativo di rivoluzionare il sistema, un assolo di sitar dopo l’altro. Dopo la firma dei Dandy per la Capitol, Taylor ha parlato di Newcombe e del suo quintetto a dirigenti e talent scout ogni qual volta che ne ha avuto occasione. La rivoluzione non sarebbe stata trasmessa in televisione, ma sarebbe stata guidata da due artisti dall’aria altezzosa (e sballata) con un arsenale infinito di canzoni rétro.
Se siete tra i milioni di persone che hanno visto Dig!, il documentario di Ondi Timoner del 2004 che immortala le due band nel momento in cui si preparano a portare il loro sound alle masse, sapete cosa è successo dopo. Scatti d’ira. Egoismo. Scazzottate sul palco. Tour disastrosi, pezzi con diss reciproci, feste folli e basette esagerate. Al centro di tutto questo c’è un’amicizia trasformatasi in una rivalità che si acuisce quando una band imbocca la parabola ascendente e l’altra precipita rapidamente nel baratro.
Accolto come un classico fin dalla sua proiezione in anteprima al Sundance, vincitore del premio della giuria per il miglior documentario di quell’anno, Dig! fotografava il momento in cui le rock band underground potevano ancora essere accusate di “vendersi” quando firmavano un contratto e l’industria discografica non era ancora stata distrutta. Compare regolarmente nelle classifiche dei migliori documentari musicali di sempre, è stato parodiato in un episodio di Una mamma per amica e da 20 anni è un classico delle proiezioni nei tour bus.
«Una volta ho ricevuto una telefonata da Dave Grohl», racconta Timoner. «La prima cosa che mi ha detto è stata: “Cazzo, ma sei tu?! Ho detto a un sacco di gente che oggi avrei parlato con te e tutti mi hanno risposto: ma smettila! Tutti i musicisti hanno visto quel film. Tutti conoscono qualcuno che ha conosciuto le band del film. È la nostra storia. È roba che abbiamo vissuto”».
Così, quando Ondi e David Timoner, suo fratello e collaboratore nella realizzazione di Dig!, si sono resi conto che si stava avvicinando 20° anniversario del film, hanno iniziato a pensare a cosa fare per commemorarlo. O, meglio, a cosa non fare. «Non eravamo interessati a limitarci a fare un Dig! The Extended Version o Dig! Upscaled», dice lei, «anche se alla gente piacerebbe. Per anni i fan hanno continuato a chiedermi quando avrei fatto Dig! 2 e io ho sempre risposto che avevo storie che volevo raccontare e solo un tempo limitato su questo pianeta».
È stato in quel periodo che David ha scoperto che Joel Gion (suonatore di tamburello e giullare alla corte dei Brian Jonestown Massacre, nonché proprietario del volto che ghigna sul poster del film) aveva una pagina Patreon e stava scrivendo un libro sul suo periodo con la band intitolato In the Jingle-Jangle Jungle. David si è abbonato e lui e Gion hanno iniziato a raccontarsi vecchie storie. Quando ha letto alla sorella alcuni scritti dell’ex veterano dei BJM, Ondi ha lanciato l’idea di fare qualcosa nell’ambito dell’animazione «tipo The Midnight Gospel, ma con i suoi testi». Poi i Timoner si sono chiesti: e se Gion invece registrasse la nuova voce narrante per il documentario? Avevano ancora la voce fuori campo originale del cantante dei Dandy, che ora si fa chiamare Courtney Taylor-Taylor, ma raccontava solo metà della storia. Gion avrebbe potuto dare un altro punto di vista, quello dei Jonestown, e una visione dall’interno di quell’implosione nucleare.
Così è nato Dig! XX, una sorta di versione remix e rimasterizzata per il 20° anniversario del documentario che ora vede Gion guidare gli spettatori attraverso i campi minati della vita in tour dei BJM e i tracolli di Anton. Anche se ai Timoner non interessava fare una versione più lunga in stile Director’s Cut, hanno recuperato le 2500 ore di girato («Era tutto nel garage di Ondi») e hanno integrato il tutto con una quarantina di minuti di materiale inedito che offre un contesto più preciso per i momenti memorabili del film. Vi siete mai chiesti perché la band si è azzuffata sul palco del Viper Room di fronte ai pezzi grossi della discografia (un indizio: c’entrano i sitar)? Volevate sentire il batterista originale dei Dandy, Eric Hedford, raccontare perché ha lasciato la band? Preparatevi a essere esauditi.
Il fatto che la versione XX venga presentata in anteprima 20 anni dopo al Sundance, dove tutto è iniziato, non fa che rendere questo momento ancora più significativo. Timoner ricorda che, quando stava cercando di dare una forma al film per poterlo presentare al festival, il primo montaggio durava più di cinque ore. «E mi dicevo: no, non posso tagliarlo», racconta, seduta in un angolo appartato dell’ufficio stampa del festival. «Deve durare tanto». Secondo David, «volevamo fare l’Hoop Dreams dei documentari musicali. E invece è venuta fuori, tipo, la Shoah dei rockumentari».
Timoner inizialmente è riuscita a ridurre il film a tre ore e mezza di durata. Tagliando ancora, è arrivata ai 107 minuti presentati al Sundance 2004. Ha conservato il montaggio di cinque ore, così, quando David si apprestava a editare quello che sarebbe diventato Dig! XX («Io ho montato l’originale», spiega Ondi, «quindi ho detto: fratello, a questo giro tocca a te»), ha recuperato la prima versione-maratona. «Ho preso il montaggio di cinque ore e l’ho sovrapposto a quello finale. Così abbiamo visto cosa c’era già e cosa avrebbe avuto senso aggiungere». Aggiunge Ondi che «abbiamo messo tutto in discussione, in buona sostanza. Non volevamo usare solo outtake o cose simili. Il criterio era: questo aggiungerà qualcosa al film? Cambia o aggiunge qualcosa alla storia?».
E Dig! XX, infatti, è pieno di frammenti extra e di sequenze ampliate che fanno riflettere su alcuni momenti chiave, e riequilibra un po’ lo schema band-contro-band. Taylor-Taylor dice sempre «mi basta starnutire e mi escono delle hit», ma ora la sua sicurezza è mostrata in contrapposizione alla Capitol che ostacola le decisioni della band e si mette di traverso quando i Dandy non generano immediatamente soldi. Joel Gion è ancora un personaggio di culto che fa da confidente ad Anton (è sempre stato la vera star del documentario), ma la sua narrazione e i momenti extra in cui cerca di smorzare i toni o di scherzare per uscire dalle situazioni di crisi sottolineano quanto il suo ruolo fosse fondamentale nei BJM e quanto fosse frustrato per via delle tendenze autodistruttive dell’amico.
E poi c’è Anton Newcombe, mente e stregone dei Brian Jonestown Massacre. Rappresenta un esempio perfetto di come mandare in fumo una carriera musicale promettente e di come il genio che consente a un artista di scrivere un pezzone psichedelico dopo l’altro possa alimentarne anche la follia. In questa versione remixata ne esce come una figura più tragica che folle. Le sue oscillazioni fra alti e bassi sembrano più circostanziate e comprensibili. La scena in cui si vedono i suoi genitori e si capisce come abbiano contribuito a generare il suo malessere ora è accompagnata da una porzione più estesa della canzone The Devil May Care (Mom and Dad Don’t) il cui testo esprime meglio i suoi sentimenti. E non è un bello spettacolo.
«Ricordo di aver mostrato a Doug Pray, il regista di Hype!, un montaggio preliminare», racconta Ondi. «Il suo commento è stato: “Hai del materiale ottimo, ma il tuo protagonista non ci piace. È un po’ stronzo”. Mi sono resa conto che non era piaciuto perché sentivano che non piaceva a me: adoravo Anton e credevo in lui, ma ero infuriata con lui per le opportunità che aveva sprecato e di conseguenza la mia rabbia è entrata nel film. È stata una bella lezione per me, giovane regista: devo fare in modo che il pubblico si affezioni ai personaggi, e la cosa deve partire da me. Ci abbiamo pensato molto, mentre assemblavamo XX».
L’empatia del nuovo montaggio comunque non ridimensiona le tante scene che ritraggono comportamenti pessimi, eccessi da rockstar, egoismo autolesionista, tossicodipendenza. Significa semplicemente il fatto che, a distanza di 20 anni, i creatori di Dig! hanno raggiunto un nuovo livello di consapevolezza, comprensione e perdono nei confronti dei musicisti dell’epoca. La nuova versione racconta anche ciò che è successo a questi artisti dopo l’uscita del documentario: i Dandy Warhols vanno ancora in tour e si esibiscono, Anton ha scritto il tema di Boardwalk Empire ed è stato ospite in un episodio di Parts Unknown di Anthony Bourdain, mentre Joel ha pubblicato dei dischi solisti e scrive racconti. Un frammento, in coda a XX, mostra i Dandy Warhols, i Black Angels e i BJM che suonano insieme ad Austin, l’anno scorso. Si vedono anche spezzoni di un concerto a Melbourne, tenuto poco dopo, in cui Newcombe viene ancora una volta alle mani con un compagno di band.
Per quanto concerne i musicisti, il loro rapporto con Dig! continua a essere complicato. Newcombe e Taylor-Taylor dal 2004 hanno sia elogiato che criticato più volte il film, parlandone con la stampa; Newcombe non ha ancora visto XX («Al momento è in pratica disperso», dice David), ma il suo management ha condiviso dei post presi dall’account Instagram del film. Ondi e David hanno invitato le band a esibirsi all’afterparty della prima. Alcuni, come il chitarrista dei Dandy Peter Holmström, hanno rifiutato gentilmente. «Ha detto che non possiamo capire», ricorda David, «che ogni giorno sono costretti ad affrontare le conseguenze del film».
«Li ha aiutati a costruirsi una fanbase, ma sono anche certa che siano stufi marci di rispondere a domande sul film», dice Ondi. «“Allora, com’è stato?! Raccontate!”. Ho chiesto ad amici di Anton perché fosse tanto ostile nei confronti di Dig! e mi hanno risposto che lui era uno che scriveva canzoni, suonava, registrava, e poi siamo arrivati noi e abbiamo creato qualcosa di più grande di tutto questo. Lo comprendo benissimo».
Alcuni musicisti sono però arrivati ed è stata organizzata l’esibizione di un supergruppo al Sundance, dopo la prima di Dig! XX, composto dalla tastierista e percussionista dei Warhols, Zia McCabe, dal batterista originale Eric Hedford e da Miranda Lee Richards dei BJM (Gion ha dovuto rinunciare causa Covid). Quando sono arrivati per l’intervista, si è parlato del lascito del film e del suo impatto sulle band.
«Quando la rivalità si è estesa ai fan, e improvvisamente la fazione dei Jonestown diceva qualcosa di cattivo su di noi o quella dei Dandy la diceva su di loro, ho iniziato a pensare al successo del film come una cosa negativa», ha spiegato McCabe. «Mi è sembrato che abbia calcato un po’ troppo la mano sui drammi. Ma capisco che si debba creare una narrazione e una sorta di contrapposizione tra buono e cattivo, ma vorrei ritornare a quei giorni gloriosi in cui ci trovavamo insieme negli studi, a sudare, a passare notti insonni e a vivere i nostri momenti più profondi e creativi». «Che nooooooia», ha commentato Hedford tra le risate.
«Alcuni dei momenti più bui, così come alcuni dei più belli, sono stati omessi per seguire il filo narrativo», ha detto McCabe. «Non potevate immortalare tutto, per quanto ci abbiate provato. Ma è passato così tanto tempo che ormai provo solo nostalgia. Sono cose che abbiamo vissuto. Quando eravamo al Levitation, a ottobre, con i Black Angels e i Jonestown, stavamo facendo una cover di Sister Ray dei Velvet Underground e c’era un tizio che ci filmava e si vedeva che pensava: “Oh cazzo…”. Tutti noi abbiamo capito che era un momento fondamentale. Tipo: sta succedendo di nuovo».
Secondo Hedford, «è tipo un diario folle, ma vi sono grato per avere immortalato tutto quanto, perché di sicuro non mi sarei messo a scattare foto o a prendere appunti. Lo guardo e penso: è una macchina del tempo. È fantastico. Anche un po’ folle. Non segue un copione».
«L’avete detto l’altro giorno: normalmente le band non vengono filmate in questo modo, a questo punto della loro carriera, perché nessuno finanzierebbe una cosa simile», ha osservato Ondi. «E di solito i gruppi di quel tipo non esistono più, quando il documentario è pronto, perché sono implosi», ha aggiunto McCabe. «Quindi grazie per aver creato una macchina del tempo per noi».
«Erano 20 anni che aspettavo questo ringraziamento!», ha esclamato la regista.
«Prego!», ha detto Zia. «Finalmente l’hai avuto. Ed è documentato».
Da Rolling Stone US.