Riprovare la vertigine della voce di Demetrio Stratos | Rolling Stone Italia
Fino ai limiti dell’impossibile

Riprovare la vertigine della voce di Demetrio Stratos

Tutto lo citano, pochi lo conoscono bene, quasi nessuno ne segue le orme. Un giro per le sale della mostra a lui dedicata a Ravenna per riscoprire l’essenza della sua esperienza di cantante. Negli anni ’70 si rifletteva sul linguaggio e si ripensavano le tecniche vocali, oggi stiamo a discutere di Auto-Tune

Riprovare la vertigine della voce di Demetrio Stratos

Demetrio Stratos durante la registrazione di ‘Metrodora’, 1976

Foto: Roberto Masotti/Lelli e Masotti Archivio

Sono passati 46 anni dalla morte di Demetrio Stratos e una domanda sorge spontanea: in questo lasso di tempo si è messa in luce a sufficienza l’importanza della sua opera, che non si limita alla discografia, ma anche alle sperimentazioni? La risposta è nì. È vero che il suo nome è citato quando si parla delle vicende del rock italiano e si vuole sottolineare l’importanza dei suoi studi. A Milano gli è stata dedicata una via, altrove una piazza. Apparentemente Stratos è presente nella memoria, nella storia della musica e, in generale, della cultura del nostro Paese. Al tempo stesso però c’è una larghissima fascia di pubblico che ignora totalmente la sua esistenza, che non sa nulla delle sue scorribande con gli Area e, ancora di più, non conosce l’importanza del suo lavoro sulla voce.

Escludendo pochi nomi (John De Leo dei Quintorigo su tutti) praticamente la sua influenza sui cantanti italiani degli ultimi 40 anni è stata nulla. Troppo poco commerciale, troppo elitario, qualcuno potrebbe pensare. In realtà troppo arduo tecnicamente da imitare. La sua esperienza è unica: non si è assistito ad alcuna evoluzione del mezzo vocale, né c’è stata la volontà di usare il canto (anche) come tramite per la ricerca dei limiti del proprio sé. Secondo Stratos, la voce dovrebbe invece liberarsi dall’uso standardizzato che viene fatto.

Responsabile di una così scarsa influenza sono anche le poche iniziative messe in atto nel corso del tempo. Il lavoro di Stratos è rimasto oggetto di culto per pochi appassionati. Questa mancanza di attenzione ha spinto i curatori Enrico Pitozzi ed Ermanna Montanari ad allestire una mostra che fa della ricchezza dei materiali esposti e della possibilità di immergersi totalmente in essi il punto di forza. “Fino ai limiti dell’impossibile. La ricerca vocale di Demetrio Stratos 1970-1979. Secondo movimento” è stata inaugurata il 14 dicembre 2024 a Palazzo Malagola a Ravenna. Doveva andare avanti fino alla fine di gennaio, è stata prorogata (sarà visitabile da sabato 1 a domenica 16 febbraio il venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18). Entrare nelle stanze della mostra vuol dire calarsi nell’arte di Demetrio Stratos, tanto che a volte il palazzo stesso appare come sorta di enorme simulacro del corpo-voce del performer.

All’inizio del percorso ci si imbatte nei preziosi reperti cartacei (manifesti, locandine d’epoca, ecc) che testimoniano le sortite concertistiche, il catalogo dei dischi e le nobili collaborazioni (su tutte quella con John Cage). Ma è dalla seconda sala che lo spirito di Stratos prende vita grazie a un ascolto immersivo, agevolato da nove altoparlanti sistemati intorno all’ascoltatore, di alcuni studi sulla voce. Il senso della realtà si smarrisce nel rendersi conto, con un sistema di ascolto tanto avanzato, delle miriadi di sfumature che la sua voce era in grado di esprimere. È qui che si percepisce quanto in fondo il “semplice” cantare, leggero o operistico, sia solo una delle tante possibilità che Demetrio ha messo in campo.

Foto: Marco Sciotto

Ci si muove, ancora con un senso di vertigine, visitando una sala nella quale vengono offerti, tramite cuffie, gli ascolti di cinque documenti sonori, corredati dalla visione di materiali quali spartiti, foto, libri e manoscritti a cura dello stesso Stratos, con la sua voce nelle orecchie e la sua grafia a spaziare tra italiano, greco, francese e altri idiomi del mondo. Poi i suoi disegni e le immagini con i bambini delle scuole nelle quali insegnava a liberarsi dalle catene di una vocalità imposta per tornare a quando, infanti, la lallazione consentiva una esplorazione sonora ad ampio raggio, smarrita nell’età adulta. Una sala con luci soffuse, con i materiali che emergono dal buio, la voce che penetra corpo e spirito.

«Con i suoi studi Stratos ha aperto una strada che va oltre la semplice comunicazione del linguaggio», spiega Enrico Pitozzi. «La voce, per lui, non era solo un mezzo per dire qualcosa, ma una forma di esperienza che nasceva dalla connessione con tutto ciò che ci circonda. È come se non venisse prodotta da noi in modo consapevole, ma emergesse attraverso un flusso che ci penetra. La tradizione mongola, ad esempio, parla di una voce che nasce dalle acque, attraversa il corpo e si esprime nella sua forma sonora, come un’eco che ritorna dalle montagne. In quella visione, la voce non è l’ego che si esprime, ma qualcosa che nasce da una connessione con il mondo. Questo processo richiede il mettere da parte la volontà di controllo, l’ego che spesso domina nelle nostre vite. Quando si riesce a farlo, si guadagna in serenità e qualità».

Il positivo smarrimento fa sì che non ci si accorga di una porticina che conduce a uno spazio ulteriore: una piccola sala cinematografica che mostra il prezioso documentario La voce Stratos di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato (2009) e una videolezione inedita nella quale Stratos cerca di svelare ogni mistero delle sue diplofonie, triplofonie e flautofonie. Si riemerge trovandosi innanzi alla statuetta lignea utilizzata per la copertina di Arbeit Macht Frei, altro tunnel spazio-temporale, insieme al leggio di Demetrio, al suo fischietto-intonatore, alle foto da bambino vestito da cowboy. È tutto così vivo, presente, nuovo. Quel leggio, quel fischietto sono lì intatti. Sembra che il tempo non sia trascorso, ci si aspetta che da un momento all’altro la sua imponente figura entri nella stanza.

Di grande interesse anche la presenza di parte della sua collezione di dischi: canti mongoli, musiche giapponesi, arabe, turche… Entriamo nelle sue passioni per capire quanto ampi fossero i suoi interessi e quanto la fusione messa in atto abbia attuato una sintesi di luoghi e tempi disparati in un impasto vocale che in un attimo trasporta nei quattro angoli del globo. Infine un’ulteriore chicca, le musiche mai pubblicate di un Satyricon messo in scena dal Teatro dell’Elfo per la regia di Gabriele Salvatores. Un altro paio di cuffie e una nuova immersione, questa volta nell’inedito.

«La ricerca è un gioco nel quale si rischia la vita»

Demetrio Stratos

Ma da dove viene tutto questo bendidio, convogliato in queste stanze in uno smisurato atto d’amore nei confronti di Demetrio Stratos? Enrico Pitozzi: «Oderso Rubini (storico catalizzatore della scena rock bolognese di fine anni ’70, nda), in qualità di consulente dell’assessore alla Cultura della regione Emilia-Romagna, è venuto a visitare Malagola, che in un’ala del palazzo si occupa di condurre uno studio sulle possibilità della voce. Oderso ha pensato subito che fosse il luogo perfetto per ospitare un archivio su Demetrio. Così ci ha messo in contatto con Daniela (Ronconi, la vedova di Stratos, nda) e da lì è nato questo rapporto. Tutto il materiale era a casa di Daniela. Capita inoltre che persone entrino in contatto con noi e ci dicano di possedere ulteriori documenti che potrebbero mettere a disposizione: manifesti, registrazioni audio o video… Tutto quello che entra diventa parte dell’archivio».

La domanda a questo punto è d’obbligo: quanto è importante, nel 2024, la riscoperta di un personaggio come Stratos? «Demetrio è una figura fondamentale per diverse ragioni che vanno oltre il suo impatto nel campo della musica», risponde Pitozzi. «La sua importanza si articola su diversi livelli. Stratos è noto per aver esteso i confini delle tecniche vocali convenzionali, esplorando il canto difonico e altre forme di espressione vocale non tradizionali. Questa ricerca non si limita al mero sviluppo di nuove tecniche ma si connette anche con una riflessione filosofica sulla voce e il linguaggio, temi che oggi sono di crescente interesse. Demetrio ha influenzato anche il teatro dialogando con le teorie di Antonin Artaud sulla performance, questo approccio interdisciplinare amplifica il significato dell’arte come esperienza vitale radicata nella cultura e nella società. La sua ricerca non è stata isolata, ma ha abbracciato influenze e tradizioni da diverse culture come quella mongola e turca. Tale apertura ha contribuito ad arricchire il panorama artistico e a promuovere un dialogo interculturale. Stratos ha sottolineato inoltre l’importanza di considerare l’arte non solo come un prodotto finito, ma come un processo creativo in continua evoluzione. Infine la sua capacità di creare una propria strada combinando innovazione tecnica con una profonda riflessione culturale lo rende un modello stimolante per i giovani che cercano di definire la propria identità artistica in un contesto contemporaneo».

Foto: Marco Sciotto

Una cosa che da sempre affascina di Demetrio Stratos è il suo essersi donato totalmente alla ricerca, il suo spingersi così oltre da sacrificare se stesso. Lo ripeteva di sovente: «La ricerca è un gioco nel quale si rischia la vita». Dove sarebbe arrivato se il suo percorso non fosse stato interrotto? «Sembrava avere superato un limite invalicabile, a un certo punto. Forse, però, non si poteva andare oltre. Queste sono solo supposizioni, ovviamente, ma il punto interessante è che non sapremo mai fino a dove sarebbe arrivata la sua ricerca se non fosse morto. Probabilmente avrebbe potuto aprire altre strade incredibili. Per fortuna abbiamo la possibilità di avere dei materiali, come le lezioni che teneva per la televisione, in cui spiegava la sua tecnica vocale. Ciò che colpisce è che da lì si sarebbero sicuramente aperte altre piste di sviluppo della sua ricerca. Ma la dipartita ha interrotto tutto questo».

È bene sottolineare il fatto che Stratos non sia stato solo uno sperimentatore accademico, ma anche un musicista rock. E mi chiedo: come mai nel contesto della popular music italiana così pochi artisti sono stati influenzati dalla sua ricerca? «Quando entri nel mondo del pop, ti accorgi che manca un elemento fondamentale: la riflessione sul linguaggio. Oggi nella musica popolare sembra che la canzone sia solo un testo, la musica stessa è quasi inesistente. Gran parte della produzione è fatta di basi elettroniche, nessuno suona più, l’attenzione è tutta sul testo, che spesso non ha molto da dire. Tuttavia ci sono esperienze che potrebbero favorire la nascita di qualcosa di nuovo. Pensiamo ad esempio a Daniela Pes e alla sua ricerca vocale che si muove in una direzione nella quale c’è ancora molto da dire».

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