Sono trascorsi solo due giorni dall’ultima volta che ho acquistato un disco di Fred Bongusto e solo uno dall’ultima volta che l’ho ascoltato. Ieri mattina, più o meno intorno all’ora in cui oggi sto scrivendo, bevevo il secondo caffè della giornata e mettevo sul piatto il 45 giri di La mia estate con te, un pezzo del 1976 che dà il titolo a un album omonimo uscito nello stesso anno. È una delle maggiori hit del cantante e racconta la fine di una storia d’amore esplosa nell’estate che finisce per tornare sul petto e tra le braccia del nostro in forma di tormento, di immagini che sono ricordi assiepati e incessanti, che non lo abbandonano mai e che lui non riesce ad abbandonare perché in realtà vuole tenerseli tutti addosso. Come canterebbero i Magnetic Fields, “I don’t want to get over you”. Se Stephin Merrit si dice pronto a vestire in nero e leggere Camus per consacrarsi alla perdita, al lutto amoroso, Fred invece si accoccola nel languore e ci sguazza con movimenti lenti e morbidi.
È un buon esempio, questo brano, per raccontare due aspetti centrali della poetica del nostro. Anzitutto il fatto che per Bongusto l’estate non finisce mai, è un tempo preciso di maturazione calda dei sentimenti, l’istante di desideri che si formano e si esaudiscono ma non è un tempo che si esaurisce in se stesso; l’estate è lo spazio del corpo e del desiderio, ma è soprattutto un’idea costante, un pensiero perpetuo, l’incanto del freno abbandonato a se stesso e del gusto totalizzante del vivere gli amori e le passioni, come la natura e il mare: è, insomma, sinonimo di slancio. La mia estate con te, canta, e subito dopo ci aggiunge, come equiparandone il senso, “la mia vita con te”. Come a dire che un’estate insieme a volte vale una vita insieme, ma pure il contrario: la vita amando è un’estate senza fine.
L’altro elemento fondamentale che emerge da questo brano ma si applica con agilità all’intera storia musicale di Bongusto è proprio una precisa rappresentazione del maschio e, in modo più ampio, dell’innamorato, dell’essere desiderante. Il “tipo Bongusto” è il romantico che appare ‘femminaro’, donnaiolo, tutto preso da night e rimorchio, lune sul mare e pelli scottate dal sole ma, a ben ascoltare, dietro la facciata cela un romanticismo strabordante e atavico. Bongusto ha la capacità di cantarci attraverso immagini immediate e molto fisiche cosa significhi giocarsi tutto per amore fino in fondo, con una devozione che è sì rivolta alla donna ma in primis, soprattutto, al sentimento stesso. In lui c’è insomma tutto un gusto perduto, antico, e diciamo pure stoico per l’amore dell’amore, un’affezione militaresca assoluta al piacere di desiderarsi, cercarsi, provare persino a promettersi qualcosa di importante, qualcosa che nel mondo hanno raccontato in pochi con la medesima costanza (uno di questi si chiama Al Green).
Tutti questo è ben dimostrato da un pezzo grandioso e davvero inesauribile come Tre settimane da raccontare (1974) dove una love story nata sotto gli ombrelloni e nell’andirivieni quotidiano tra casa e spiaggia prova a superare i limiti della stagionalità cui parrebbe deputata secondo la vulgata dei jukebox e dell’epica estiva, e nella quale il nostro cantante, dopo essersi concesso a immagini amorose da sogno e annali come: “la nostra canzone è prima da tre settimane”, si concede pure una promessa senza troppi indugi e anziché offrire all’Italia l’ennesima canzonetta sull’agosto che tutto si porta via precipitando dentro settembre, alla sua bella che non lo vuole perdere e piange in cabina offre il lusso inatteso di una certezza, di un tentativo, tranquillizzandola: “ma non aver paura, non è soltanto un’avventura”.
La grandiosa forza delle canzoni di Bongusto attraverso i decenni sta proprio nella compattezza del mondo che ci raccontano e nella capacità di far corrispondere a un gran numero di immagini giocose e che richiamano alla mente l’immaginario che a partire dal boom economico ha attraversato per tre decenni la nazione, una profondità emotiva adulta sostanziale e rarissima. È un continuo gioco dell’elastico, il suo, tra immagini di sabbie, onde, capelli mossi e legati al vento, bibite, dischi che girano, ombrelloni, baci rubati – tutto in una derivazione dell’immaginario da costiera fatto di Carosone, whisky & soda e rock’n’roll – e una concezione emotiva che dal confidenziale guarda al cantautorato o più esattamente a una nuova interpretazione d’autore.
In questa grana d’autore, in questa profondità, sta senza dubbio la capacità non solo di perdere, ma pure di crogiolarsi nella propria perdita, di accogliere le malinconie amorose senza compromessi, proprio come ci mostrano le sue due hit più note, Una rotonda sul mare (1964) e Spaghetti, insalatina e una tazzina di caffè a Detroit (1967). Nella Rotonda sul mare – un locale di Senigallia che pare nato con l’esclusiva finalità di poter esistere in una canzone – c’è “il nostro disco che suona” (quanti dischi nelle canzoni di Fred!), e ancora “vedo gli amici ballare ma tu non sei qui con me” ed ecco che allora tu te lo vedi il nostro Fred sconsolato nel lancinante mal d’amore di chi non è stato scelto, di chi non è stato voluto, bere un’acqua brillante Recoaro mezzo accasciato su un divanetto in velluto, fermo, anzi immobile, immalinconito dalla canzone che gli ricorda di lei mentre tutti danzano e lui non vuol proprio ballare; e te lo vedi pure poche canzoni dopo interpretare bene questo personaggio che “a malapena riesce a mandar giù” un pasto, perché la sua amata è lontana e lui sente la sua tremenda mancanza.
Bongusto è stato e sempre sarà il nostro miglior crooner, imbevuto di multilinguismo – in grado di usare l’italiano, certo, ma pure il napoletano imparato durante i suoi lunghi periodi in ritiro a Ischia e di non farsi mancare quel “Fred Brazil” da assiduo frequentatore e amico di Vinícius de Moraes e di Toquinho, con cui il cantante di Campobasso condivideva le origini molisane; lo ritroviamo comporre colonne sonore di pregio da Malizia a Venga a prendere un caffè da noi, ma pure lo troviamo a recitare al fianco di Macario e Alberto Sordi e tutto connesso a mille spazi di espressione com’era solito accadesse in questo Paese fino a qualche tempo fa, dove l’uomo di spettacolo intraprendeva viaggi ed esperimenti artistici spesso molto diversi e connessi tra loro.
Con Bongusto che se ne va perdiamo di nuovo un immaginario già perduto e lontano, perdiamo spiagge che continuano a esistere solo nei nostri slanci e nelle canzoni, rotonde sul mare che possiamo solo sognare, baci rubati sull’ultima punta finale dell’estate e che richiederanno molto più di tre settimane per essere dimenticati. Perdiamo un paladino del racconto amoroso e languido della nazione, oppure forse abbiamo la solita buona occasione triste per farlo nostro come mai prima.