Bruce Springsteen, la recensione del documentario ‘Road Diary’ | Rolling Stone Italia
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‘Road Diary’, il documentario su Springsteen, la vita, la morte e tutto quello che c’è in mezzo

A Toronto per vedere il Papa benedire i fedeli, ovvero Bruce che riceve un’ovazione dai fan alla prima del documentario diretto da Thom Zimny. «Se dovessi morire domani, mi andrebbe bene, è stato un gran viaggio». Amen

‘Road Diary’, il documentario su Springsteen, la vita, la morte e tutto quello che c’è in mezzo

Bruce Springsteen

Foto: Rob DeMartin

Uno è abituato a sentire urlare «Bruce! Bruuuce! Bruuuuuuuce!» allo stadio. Fa uno strano effetto sentirlo alla Roy Thomson Hall di Toronto, una sala da 2600 persone e quindi molto più piccola dei posti in cui suonano solitamente Springsteen e la E Street Band. Ma è quello l’urlo che si alza quando il musicista entra in sala per assistere alla prima di Road Diary: Bruce Springsteen and the E Street Band al Toronto International Film Festival. Il canto diventa sempre più forte, la gente s’alza in piedi, applaude, scatta foto col cellulare, a centinaia. Springsteen pare sinceramente commosso, si ferma un attimo per godersi lo spettacolo, saluta prima di prendere posto in galleria. È come vedere il Papa benedire i fedeli.

Oltre a Bruce ci sono il regista Thom Zimny, il produttore Jon Landau e Steven Van Zandt, riuniti per lanciare il documentario che racconta il tour della E Street Band che è ancora in corso ed è iniziato a febbraio 2023. Erano i primi concerti di Springsteen col gruppo in sei anni, un’eternità per gente che dà il meglio sul palco. E quindi per prima cosa, come dice Springsteen, dovevano «togliersi la polvere di dosso». Il documentario ci porta allora in un piccolo teatro a Red Bank, New Jersey. Avete sempre desiderato spiare le prove della E Street Band? Eccovi accontentati.

Sono queste prime scene, in qui i musicisti devono prendere le misure, la cosa migliore di Road Diary perché offrono uno spaccato di come gli E Streeters, alcuni dei quali suonano assieme da oltre mezzo secolo, affrontano le canzoni vecchie e nuove. Ci vuole un po’ perché tornino la memoria muscolare e la telepatia affinata in decenni passati assieme sui palchi. E poi ci sono i nuovi arrivati che devono capire come sincronizzarsi coi veterani. L’inizio è lento, per qualcuno pure troppo. Il batterista Max Weinberg si lamenta ad esempio che tutti suonano She’s the One con un tempo talmente blando «che ora è una ballata». È il perfetto dietro le quinte di come una band leggendaria si rimette in forma per affrontare la battaglia (nota per Zimny: pubblica un documentario parallelo di cinque ore, in stile Get Back, in cui ci sono solo i musicisti che provano, correremmo a vederlo).

Si capisce subito che sarà un tour diverso dagli altri e per varie ragioni, non solo per il lungo periodo d’inattività che lo ha preceduto. Sono stati aggiunti una sezione fiati, dei coristi e il percussionista Anthony Almonte e quindi ci sono nuovi arrangiamenti da mettere a punto per dare loro il giusto spazio. Addio al jukebox umano dell’ultimo tour, quando Bruce prendeva i cartelli dei fan e suonava le canzoni che venivano richieste. Questa volta c’è una set list precisa e questo perché, come dice lui, «rappresenta la storia che voglio raccontare».

Non è questione solo di cosa suonano, ma anche di quando lo fanno. E così ad esempio Backstreets sembra diversa se arriva dopo Last Man Standing. Springsteen ha molto da dire e vuole che lo si capisca. C’è una storia che copre, come dice il Boss, «la vita, la morte e tutto quello che c’è in mezzo».

Sì, nella testa di questo 74enne c’è la morte e questo per vari motivi. Sta ancora piangendo le scomparse di Danny Federici e Clarence Clemons, la cui assenza pesa sulla band. La madre era malata da tempo ed è morta a febbraio (il film è dedicato a lei e si chiude col video preso da Instagram di Bruce che balla con lei sulle note di In the Mood). Tutti suonano alla grande, ma nessuno nasconde la propria età. E può avere influito sul mood anche la rivelazione che arriva da Patti Scialfa, membro della E Street dal 1984 e moglie di Bruce dal 1991. Nel 2018, spiega nel documentario, le è stato diagnosticato un mieloma multiplo, una forma di cancro del sangue, che l’ha costretta a ridurre gli impegni sul palco.

C’è un’urgenza speciale in questo tour mondiale e Road Diary  permette di vedere com’è andata sul palco. Una manciata di filmati di Springsteen all’opera, che vanno dall’iniziale No Surrender del primo concerto fino alla chiusura dello show con un’interpretazione solitaria di I’ll See You in My Dreams, testimoniano l’atmosfera di chi vive il presente. Tutto ciò che abbiamo è il qui e ora, quel momento condiviso tra artista e pubblico che può essere divertente in una buona serata e trascendentale in una grande serata. È un sentimento condiviso dalla band, che vive ancora per quell’attimo di’esaltazione comunitaria che nasce dal suonare dal vivo sezna dare per scontata la possibilità di farlo ancora una volta.

Quando invece Road Diary mostra le testimonianze dei fan, riporta le lodi del pubblico europeo (quanto è entusiasta!) o ripete i soliti luoghi comuni su quant’è fantastico il gruppo (nessuno ha bisogno di essere convinto a questo punto della storia) sembra un… sì, un diario di viaggio. Ma quando si esplora il motivo per cui questa serie di concerti è così importante per il pubblico e per la band, allora sì che diventa speciale. Bruce Springsteen e la E Street Band sono ancora in forma smagliante e vi convinceranno – o moriranno provandoci – della grandezza e del mistero del rock.

Steven Van Zandt, Thom Zimny, Bruce Springsteen e Jon Landau al Toronto International Film Festival. Foto: Valerie Macon/AFP via Getty Images

Dopo la proiezione, Thom Powers dello staff del festival chiama sul palco Zimny, Landau, Van Zandt e Springsteen, lasciando al chitarrista il ruolo di moderatore. Van Zandt fa le domande attraverso il suo «teleprompter mobile», vale a dire il cellulare. Chiede a Zimny come ci si sente ad aver lavorato con Bruce in 14 film in 24 anni e come si sia approfondito il loro rapporto: è una questione di fiducia, dice il regista. Landau dice che è stato un tour decisamente più emotivo del solito, in parte per il fattore età e in parte perché sembrava «una riassunto della storia della band fino a questo momento».

È poi il turno di Springsteen. Davvero questi spettacoli riflettono gli oltre 50 anni di musica con la band? «Facciamo l’unico mestiere al mondo in cui a 75 anni d’età lavori ancora con le persone con cui sei andato al liceo. Vivi con loro. Li vedi crescere, sposarsi, divorziare, andare in prigione, uscire di prigione, non pagare gli alimenti per i figli, pagare gli alimenti per i figli, invecchiare, vedi i loro capelli ingrigirsi e alla fine ti ritrovi nella stessa stanza quando muoiono».

«Da un lato vorrei augurare a tutti quanti un’esperienza altrettanto bella e totale coi vostri amici. Dall’altro è una cosa che pesa per il tempo trascorso insieme e per le cose fatte. Mi ricorda la scena di Blade Runner, quella di “Ho visto cose che voi umani…”. Ecco, abbiamo visto un po’ di quelle cose là».

«Ma se dovessi morire domani», dice Springsteen poco prima dell’ultimo inchino della serata, «mi andrebbe bene. È stato un grandissimo viaggio».

Da Rolling Stone US.