Rolling Stone Italia

Robbie Williams, i 50 anni di una faccia da schiaffi

Da Take That a solista di enorme successo, passando per gli eccessi, i videoclip cult, le dipendenze e lo swing. Oggi forse non ha più la rilevanza musicale di un tempo, ma resta il ragazzo “esagerato” che ha cambiato il pop. Non solo brit. E che finalmente si vuole bene

Foto: Netflix

I hope I’m old before I die”, cantava Robbie Williams nel lontano 1997. E oggi ci è riuscito per davvero, facendo lo slalom tra dipendenze di vario tipo, depressione e una carriera altalenante ma senza dubbio redditizia e ricca di colpi di genio. Esattamente cinquant’anni fa a Stoke-on-Trent, Staffordshire, Robert Peter Williams emetteva il suo primo vagito tra le braccia dei suoi genitori, Theresa e Peter, che all’epoca gestivano un pub a Burslem, ignari che un giorno il loro figlio sarebbe diventato l’artista solista di maggior successo di tutti i tempi nel Regno Unito, con 12 album in studio e 7 greatest hits all’attivo, tre residenze di lusso tra Los Angeles, Malibù e Londra e un patrimonio di oltre 300 milioni di dollari. Tuttavia la popolarità, per Robbie, è sempre stata un’arma a doppio taglio, come racconta nella docuserie Netflix in quattro puntate uscita a novembre dell’anno scorso. Un inferno personale in cui l’attenzione mediatica ha contribuito a minare le sue fragilità emotive fin dall’età di 16 anni, quando mollò la scuola per entrare nei Take That. Un patto con il diavolo per uno showman destinato al successo, un processo di autodistruzione che fa capolino in molte delle sue canzoni pop.

Riavvolgiamo il nastro. «Ho lasciato Geri perché ero convinto che avesse un accordo con i fotografi», ha puntualizzato Robbie in una recente intervista. Erano gli anni Novanta, i cinque Take That – Robbie, Gary, Jason, Mark e Howard – stavano rivoluzionando la storia della musica così come le conosciamo oggi, fomentando un’isteria di massa su scala globale; una vera e propria teenager-mania che non si vedeva dai tempi dei Beatles o dei Duran Duran. Nel 1994, i Take That fecero anche un’ospitata al Festival di Sanremo e a Non è la Rai, che quell’anno era condotto da Ambra Angiolini, mandando in lacrime il pubblico in studio e mezza Italia. Milioni di ragazzine erano innamorate di loro, assediavano gli hotel dove il gruppo soggiornava, gli studi televisivi, le radio e i negozi di musica. Nessuno, all’epoca, si sarebbe aspettato l’uscita di scena di Robbie dalla boy band più famosa del mondo, così come (anni dopo) lo scioglimento delle Spice Girls di cui Geri Halliwell faceva parte. Eppure la carriera solista di Robbie, iniziata nel 1996 dopo l’abbandono dei Take That, non fu affatto un ripiego, ma decretò l’inizio della sua seconda vita artistica, quella più longeva e interessante, grazie al sodalizio con il compositore e produttore Guy Chambers.

Dopo l’esordio un po’ banalotto di Freedom, cover di un celebre pezzo di George Michael, fu l’album Life Thru a Lens, il suo primo disco da solista in perfetto stile Brit-pop, ad aprirgli le porte della rinascita. Angels e Let Me Entertain You sono i singoli che riscossero maggior successo, e che ricordiamo ancora oggi. Soprattutto Angels, che nell’aprile del 1998 raggiunse il primo posto in Gran Bretagna e non solo. E mentre cocaina, alcol, depressione e problemi alimentari non smettevano di affiorare nella vita di Robbie, fu il suo secondo album, I’ve Been Expecting You, a fare esplodere la sua carriera, debuttando direttamente al numero uno della classifica inglese. Scritto a quattro mani con Guy Chambers, in Giamaica, with a little help of Neil Tennant dei Pet Shop Boys e Neil Hannon dei Divine Comedy per il singolo No Regrets, si ispirava a una celebre canzone di James Bond per la prima hit: Millennium.

Quell’anno Robbie Williams volò anche in Italia per partecipare agli MTV Europe Music Awards e per il suo primo concerto da solista da noi, al Rolling Stone di Milano. L’imprinting di quel disco, tra ballad e brani pop super radiofonici come She’s the One, divenne il suo marchio di fabbrica e tracciò il solco per gli anni a seguire, quando Robbie diede alle stampe Sing When You’re Winning e Escapology, i due dischi probabilmente più importanti della sua carriera: ci basti citare solo alcuni dei brani contenuti, come Feel, Supreme, Let Love Be Your Energy e Kids, il trascinante duetto con Kylie Minogue. Indimenticabile fu il videoclip di Rock DJ dove Robbie Williams si scarnificava letteralmente, esibendosi in un micidiale striptease in cui lanciava pezzi del suo corpo a un pubblico assetato di sangue, rimanendo nudo, anzi scheletrico, al centro di un’arena. Un altro videoclip che suscitò scalpore nell’era di MTV fu quello di Come Undone: un montaggio provocatorio tra orge e violenza per descrivere un pezzo che raccontava molto della sua vita privata, “così imperturbabile e così spaventato, così santo e così puttana”. Il titolo dell’album da cui era tratto, Escapology, calzava a pennello come descrizione di quella che è stata gran parte della sua vita: una fuga, in primis da sé stesso e dalle sue dipendenze, dai suoi fantasmi, dal successo arrivato “too much, too soon”, dalle responsabilità. E anche in fuga dai generi musicali.

Parallelamente ai suoi successi pop, infatti, Robbie ha alternato i sold out negli stadi a concerti più intimisti, con l’orchestra, al Royal Albert Hall di Londra per scappare dalle etichette e costruire un sound di tutt’altro tipo. Significativo è stato l’album Swing When You’re Winning, in cui è accompagnato da una big band per celebrare Frank Sinatra, Duke Ellington, Nat King Cole, Kurt Weill, George Gershwin; duettando perfino con attori come Rupert Everett, ma soprattutto con Nicole Kidman nel brano Somethin’ Stupid, reso immortale da un altro celeberrimo videoclip. Un esperimento totalmente inaspettato e inconsueto, che Robbie replicò nel 2013 con un secondo album, Swing Both Ways, in cui le stesse atmosfere d’altri tempi venivano modulate dalle voci di Lily Allen, Olly Murs, Rufus Wainwright e Michael Bublé. In quell’anno particolarmente ispirato, Robbie portò anche la sua personale versione di Creep dei Radiohead, in chiave swing, in occasione del concerto-evento One Night at the Palladium.

Di tutt’altro genere fu invece l’esperienza musicale di Tripping (2005), un brano che lui stesso ha definito come una “mini gangster opera”, e l’esperimento singolare di Rudebox (2006), tra hip hop ed elettronica, completamente diverso da quanto aveva prodotto finora, che non fu mai capito fino in fondo ma che oggi spaccherebbe le classifiche. Per fortuna, nell’album che includeva questa title track comparivano anche altri pezzi di rilievo come She’s Madonna, con i Pet Shop Boys, e tributi a Manu Chao e David Bowie; passando dalla dub, al pop e arrivando alla dance music. Dal 2009 a oggi, Robbie Williams ha firmato altri cinque album non particolarmente degni di nota (e nuove raccolte) segnati dall’inno situazionista Love My Life e da altri pezzi minori come Party Like a Russian e Radio; anche se la sua dimensione, bisogna dirlo, è soprattutto quella dei grandi live capaci di richiamare generazioni diverse di fan. La cifra di Robbie Williams, negli ultimi anni, è l’esagerazione, l’auto-celebrazione e l’amore per le interviste assurde.

“Ho esaurito tutte le cose buone naturali. Ho l’andropausa. Vado a letto alle 23 e rimango lì completamente sveglio e vigile fino alle 5 del mattino”, ha raccontato recentemente Robbie. “Ho già fatto il botox, mi farò anche un lifting del collo. Ho intenzione di fare una consulenza nel periodo di Natale: è il mio regalo per il cinquantesimo compleanno”. Chissà se l’ha effettivamente fatto, ora che compie cinquant’anni, e chissà cosa ne pensa la sua attuale moglie Ayda Field, da cui ha avuto quattro figli. Pace con il passato, in parte, l’ha già realizzata partecipando alla reunion con i Take That, nel 2011. “Non sapevo più di chi fidarmi, difficile capire cosa muove chi ti sta intorno”, continua a raccontare Robbie, con la voce rotta, nel documentario Netflix ricordando quando era sommerso dalle urla di 80mila persone a sera. Ma poi l’amore vince su tutto, quando posa lo sguardo sulla sua attuale famiglia. Sentirsi finalmente “sulla buona strada per essere felice”, a cinquant’anni. I mostri che albergano in lui potrebbero davvero essere un vago ricordo, oggi. Oppure ha semplicemente deciso di conviverci, con i suoi fantasmi, alla Vasco Rossi. Eppure la sensazione è che negli ultimi anni Robbie Williams stia un po’ scomparendo dietro la sua maschera di popstar che continua a replicare sé stessa, da un programma tv all’altro, in un eterno greatest hits. O forse sta solo preparando il terreno per il suo prossimo numero da acrobata. Quando vuoi, Robbie, nel caso siamo qui a guardarti nel buio della platea. Pronti a stupirci, “to see the day the Pope gets high”.

Iscriviti