Ryūichi Sakamoto doveva la sua popolarità internazionale, e bis sicuri nei suoi concerti, alle colonne sonore: Forbidden Colors da Furyo, dov’era stato anche attore con David Bowie, Sheltering Sky, Il tè nel deserto, L’ultimo imperatore, Oscar per la migliore colonna sonora nel 1987. Da ultimo The Revenant. Destino vagamente antiautorale per un musicista colto come lui, diplomato in composizione ma straordinariamente a suo agio con la musica pop, quello di legarsi alla musica da film. Ossequio al minimalismo, a Erik Satie, forse a Cage, graffio zen, all’avanguardia negata di Ennio Morricone. Oppure chissà, porta di ingresso ai codici misteriosi di un’estetica irrimediabilmente Altra, dietro tutte le apparenze.
Maneggiava perfettamente i segreti melodici e armonici del soundtrack. Prende da Morricone e dall’hollywoodiano Tomkin. Usa le scale pentatoniche ed esatoniche con le quali a inizio secolo Puccini e Debussy ricostruivano le ambientazioni di stile liberty-orientalista. Lontani parenti di quella stagione di melodrammi esotici, Nagisa Öshima e Bernardo Bertolucci, i due maestri nouvelle vague arrivati alla stagione della maturità, mettevano in scena drammi esotici, scontri di civiltà, macchine decadenti. Era il loro commento metaforico alla globalizzazione alle porte, dopo le tragedie erotiche e mortifere in una sola stanza di Ultimo tango a Parigi e Ecco l’impero dei sensi. Internazionale e globale per l’ultima volta esso stesso è il cinema, nelle sue ultime stagioni prima della rivoluzione della Rete. La musica di Sakamoto è rigorosamente malinconica, lo struggimento trattenuto – geometrico, quasi – per la fine di un’epoca.
A quel cambio il Giappone era già arrivato da un pezzo. Negli anni ’80 – oggi preistorici – il paese del Sol levante e dei samurai mette uno specchio rovesciato di fronte al nostro esotismo. Il turista giapponese sbuca dal futuro, ci scruta e ci fotografa, come se fossimo dentro I viaggi di Gulliver. Ci balocchiamo con i giochi di parole e gli stereotipi, in realtà siamo noi a guardare l’orizzonte aspettando il fil di fumo. I sistemi di visione, riproduzione del suono, gli strumenti musicali sembrano all’improvviso tutti giapponesi. Alla Toyota si vagheggia una fabbrica postindustriale, libera dai conflitti. Dimentichiamo che il 1968 in Giappone è stato durissimo, che il mondo Altro era l’avamposto più vicino di tutti al Vietnam, mettiamo tra parentesi le strane creature degli anime e dei manga che sono già nella nostra testa. Ma questa è un’altra storia, il futuro.
Korg e Roland forniscono in anteprima assoluta gli strumenti alla Yellow Magic Orchestra fondata alla fine degli anni ’70 da Haruomi Hosono, Ryuichi Sakamoto, Yukiro Takahashi (da pochissimo scomparso). YMO sarà la band più influente nella musica di fine secolo accanto ai Kraftwerk e Giorgio Moroder, ispirazione riconosciuta per l’hip hop, l’electropop e la musica techno, e il panorama sonoro nel quale siamo ancora un poco immersi. È una band di new wave elegantissima, minimale, l’aristocrazia di un gusto ultraraffinato e snob. Il Giappone di Yamamoto Yoshi, dei futon e di Muji, del sushi ha così la sua colonna sonora di musica exotica, dolcissimo stordimento globalizzato. Harumi Hosuono è capace di usare nella stessa canzone le Hawaii e Funiculi funiculà; Sakamoto si dedica a decostruire Claude Debussy, già riascoltato nei dischi del maestro del synth Isao Tomita, altra ispirazione del gruppo.
Riportare a casa Debussy. E certe trasparenze di Ravel e Fauré, scuola francese, i suoi preferiti. Debussy aveva imitato i musicisti di Giava che aveva visto all’esposizione universale di Parigi. Dobbiamo a quel colpo di fulmine la vertigine musicale che da allora non ci ha più abbandonato. E tuttavia Sakamoto redime la somma indifferenza dell’Occidente nei confronti della diversità del mondo e dell’umanità delle persone che lo abitano. Figlio com’è dell’atomica, una delle più grandi cesure della storia dell’umanità, può spogliarsi facilmente di tutto ciò che non è suono. Non c’è niente di eroico né prometeico nella sua musica. Non vale la pena. I suoi ultimi lavori, in collaborazione con Alva Noto, Async, la colonna sonora di Revenant, saranno spesso pure sculture di suono nel tempo.
Ma è dopo Fukushima, la nuova tragedia nucleare, e attraversando la malattia che lo accompagna negli ultimi anni che Sakamoto ritrova la compassione e il senso di solidarietà necessari di fronte ai disastri che ci attendono. Li ritrova nella musica di Bach che aveva studiato da ragazzo e riprende in mano negli ultimi anni (grazie ai film di Tarkovskij, spiegava). Così, dopo averci spiegato Debussy, ci spiega Bach: il kantor che a Lipsia componeva ogni domenica dell’anno qualcosa per la sua comunità, e insegnava musica ai ragazzi, per dare forza, riflettere, farsi coraggio. È la sua lezione più struggente. Militante ecologista, Sakamoto lascia in eredità la sua musica ai ragazzi che adesso in giro per il mondo si occupano degli altri per occuparsi anche di se stessi.