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Se volete sapere chi eravamo noi italiani, ascoltate le musiche di Pinocchio

La colonna sonora di Fiorenzo Carpi racconta un’Italia coi crampi allo stomaco per la fame. L’hanno eseguita ieri sera alla Milanesiana gli Esecutori di Metallo su Carta, mentre Francesco Bianconi leggeva Collodi

Ho fatto una cosa molto poco rock’n’roll, ieri sera: sono andato a vedere uno spettacolo con le musiche di Pinocchio. Le scrisse Fiorenzo Carpi per lo sceneggiato Rai con Nino Manfredi andato in onda nel 1972. Parlano un linguaggio musicale che tutti possono comprendere, ma sono a loro modo sofisticate. Mentre ero lì, seduto ben distanziato dagli altri spettatori nel cortile di Palazzo Reale a Milano, m’è preso il magone. Perché delle musiche di quel Pinocchio ci si ricorda sempre il ritmo saltellante che accompagna le birichinate del burattino e sempre ti spiazzano con temi melodici strazianti che accompagnano storie di fame e solitudine.

Quello che il pubblico s’è immaginato ieri sera, mentre Francesco Bianconi dei Baustelle leggeva estratti dal libro e gli Esecutori di Metallo su Carta di Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro eseguivano le partiture, con l’aiuto di Alessandro Grazian alla chitarra, è un Pinocchio neorealista. C’è il burattino che scalcia e salta, c’è il naso che cresce a ogni bugia, ci sono le avventure e i colpi di scena, ma c’è soprattutto un Pinocchio che vaga sconsolato con la fame che gli scava un buco in pancia. Il miracolo di questo spettacolo non è il pezzo di legno che si fa bambino, è l’equilibrio fra colto e popolare, favola e realtà, incanto e disincanto. E intanto sullo schermo, alle spalle dei musicisti, Olimpia Zagnoli illustrava in diretta le storie con disegni dal tratto essenziale e infantile, e tre soli colori, l’azzurro, il rosso e il giallo.

Ospitato dalla Milanesiana, la rassegna diretta da Elisabetta Sgarbi che andrà avanti fino al 6 agosto e che ha come tema proprio i colori, lo spettacolo si è chiuso con un altro pezzo struggente, l’unica canzone della serata. È Storia di Pinocchio, all’epoca sigla dello sceneggiato interpretata da Nino Manfredi e ieri sera cantata da Bianconi. Il suo eloquio preciso e profondo ha ben evocato i sentimenti dell’uomo che combatte la solitudine costruendo un surrogato di figlio, un burattino.

Ho lasciato il cortile di Palazzo Reale convinto d’aver visto e sentito non la riproposizione musicale d’una vecchia favola, ma uno spaccato dell’Italia che eravamo, con le pentole che bollono dipinte sui muri perché di vere non ce n’è, la fatina che promette come leccornia «un bel piatto di cavol fiore condito coll’olio e coll’aceto» e Geppetto che vende la sua casacca «tutta toppe e rimendi» per comprare l’abbecedario al “figliolo”. Questo Pinocchio è un promemoria di quel che eravamo noi italiani non molti anni fa e forse anche un esorcismo dell’autunno che ci aspetta.

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