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Sex Pistols, la storica recensione dell’ultimo concerto

Winterland, San Francisco, gennaio 1978. Rotten sfida il pubblico, Sid Vicious è tutto sputi e insulti, Steve Jones e Paul Cook suonano più forte come mai. Ecco la cronaca dell’epoca di Greil Marcus

Foto: George Rose / Getty Images via Rolling Stone US

Nell’ultima data del loro primo tour americano i Sex Pistols hanno suonato di fronte a 5000 persone, più di quante se ne erano viste ad Atlanta, Memphis, Baton Rouge, Dallas, San Antonio e Tulsa messe assieme. Sono stati sul palco per un’ora, quattro giorni dopo si sono sciolti. Forse l’unica alternativa immaginabile per il futuro dei Pistols – un futuro privo di immaginazione che loro stessi volevano negare – era abbandonare le scene o morire in un incidente aereo.

I Sex Pistols si sono lasciati alle spalle più storie che musica, ma nella loro ultima serata la musica è stata all’altezza della loro storia*. La prima cosa che mi ha colpito, dopo nemmeno un minuto, è quanto i Pistols suonino più forti sul palco che nei dischi. La musica è talmente densa che la puoi quasi toccare con mano.

Il merito è di Steve Jones – capace di far suonare la sua chitarra come se fosse più di una – e del batterista Paul Cook. Insieme formano la più grande band di due elementi della storia del rock. Sid Vicious usa il basso come oggetto di scena: inonda il pubblico di sputi, birra, muco, è una sorta di Charlie Starkweather inglese. Con un braccio fasciato dal polso al bicipite (è andato in overdose due volte in una settimana) è lì per incitare la folla.

La cosa più sorprendente di Johnny Rotten è la sua intelligenza. Gliela si può leggere chiaramente negli occhi e nel modo in cui usa il corpo. S’accovaccia a terra sgraziato come Quasimodo, ruota il collo per schivare gli oggetti che gli lanciati addosso (ghiaccio, tazze, scarpe, monete, spilli e probabilmente sassi), s’aggrappa al microfono manco fosse in una galleria del vento e stesse per essere spazzato via. «Non ci avete fatto abbastanza regali», urla dopo il lancio di una cintura. «Dovete vomitare qualcosa di meglio». Un ombrello arrotolato gli atterra sui piedi. «Questo va bene», commenta.

Il pubblico non è giovane – la maggior parte è più grande dei componenti della band – ma è sporca per posa, scelta, necessità. Un uomo con un elmetto da football americano si fa largo tra la folla per lanciarsi contro un tizio sulla sedia a rotelle: la band continua a suonare. Bodies apre lo show con la stessa intensità con cui No Fun, durante il bis, lo chiude. Rotten e Jones si danno senza risparmiarsi.

In scaletta c’è Belsen Was a Gas (“Belsen era uno spasso, l’ho scoperto l’altro giorno / ho visto le tombe aperte con i corpi degli ebrei”), Liar, i ragazzi senza speranza di Problems e soprattutto la furia e l’entusiasmo di Rotten nel ritornello di Pretty Vacant. “And we don’t care!”: il passaggio migliore di tutti, la forza della negazione che porta piacere.

Poco prima di lasciare il palco e dopo aver raccolto con cura ogni cosa di valore dal pavimento (alla fine si contano quattro ombrelli), Rotten cambia un pezzo di testo della celebre Anarchy in the U.K: “Non so cosa voglio, ma so come ottenerlo”. Questa sera, infatti, la negazione è sparita. Sa cosa vuole, Rotten, e lo pensa davvero. Ma qualunque cosa sia, noi presenti non possiamo dargliela, e Rotten lo sa. Così, pochi minuti dopo, lascia il palco. Non rivedremo mai più nessuno come lui.

* Non che la band non fosse pronta a fare di più. Avevano programmato di andare in Brasile subito dopo gli Stati Uniti, l’apertura era affidata a Ronald Biggs, che avrebbe letto poesie. Ronald Biggs era un membro della band che aveva messo a segno la grande rapina al treno.

Da Rolling Stone US.

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