Siamo sicuri che dissezionare le canzoni sia una buona idea? | Rolling Stone Italia
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Siamo sicuri che dissezionare le canzoni sia una buona idea?

Pezzi fatti a pezzi. Serie come 'Song Exploder' sono magnifiche, ma trasformare un piccolo miracolo di creatività in un corpo morto da sottoporre ad autopsia può togliere qualcosa all'ascolto della musica

Siamo sicuri che dissezionare le canzoni sia una buona idea?

Foto: Jacek dylag/Unsplash

Di che cosa parla veramente una canzone? Era il 2012 e a chiederselo erano i Tre Allegri Ragazzi Morti nel brano che chiudeva l’album Nel giardino dei fantasmi. All’arduo quesito il gruppo di Pordenone dava anche una risposta: “Di che cosa parla veramente una canzone non lo so”. Semplice, fin troppo.

Eppure negli ultimi anni i tentativi di dissezionare la musica e le canzoni hanno affollato i media e il web come non mai e le testate hanno fatto a gara nel lanciarsi nella chirurgica impresa di mettere a nudo gli organi interni del corpo-canzone, per la maggior parte con il coinvolgimento diretto dell’autore del brano prescelto. Tra i più recenti tentativi quello della serie Song Exploder: canzoni al microscopio, disponibile su Netflix, la cui seconda stagione è approdata nel mese di dicembre sulla piattaforma. C’è chi si concentra sul testo dei brani, chi sulla linea melodica, chi sulla produzione, sull’arrangiamento, sul contributo dei singoli strumenti, chi sulla struttura compositiva, ma il risultato è simile: la musica finisce sotto a una lente d’ingrandimento, per non farsi sfuggire nulla. Nulla, fino a che non ci si ritrova davanti Trent Reznor che nella puntata di Song Exploder dedicata a Hurt dei Nine Inch Nails si rifiuta di spiegare il testo della canzone, motivando: «Tanti brani mi sono stati rovinati quando l’autore mi ha detto cosa significavano o ha corretto quello che credevo io, che era molto meglio».

Con il suo rifiuto Reznor mette in luce i limiti di un’ossessione che non ci porta lontano. Perché sarà anche vero che una canzone è fatta di elementi concreti, in qualche modo scomponibili come le tessere di un puzzle, ma cosa ci guadagniamo nel rendere un piccolo miracolo di creatività un corpo morto da sottoporre ad autopsia? Niente. Anzi, perdiamo qualcosa. Che avevamo custodito con cura, che ci aveva probabilmente condotto in un universo misterioso del quale non conoscevamo l’esistenza, che si era adattato a noi come un vestito fatto su misura. Che ci aveva fatto emozionare forte purché il perché di quell’emozione restasse un segreto, gelosamente protetto – e diverso per ogni fruitore – come un seme sotto la neve.

L’esempio più celebre di questo tipo di operazione lo fornisce il New York Times con la serie lanciata sul sito della testata statunitense qualche anno fa Diary of a Song. Video splendidi – come quello dedicato a Where Are Ü Now di Skrillex, Diplo e Justin Bieber del 2015 o quello dedicato alla hit di Ed Sheeran Shape of You del 2017 – che con animazioni, grafiche e sotto la guida della viva voce dell’autore del brano si addentrano nella genesi e nella struttura delle canzoni che hanno fatto la storia di un’epoca. Ancora in corso, il progetto ha assunto negli anni successivi una veste più snella che vede Joe Coscarelli fare quattro chiacchiere in videochiamata con gli artisti.

Anche Vox, negli anni, ha proposto diverse decostruzioni di canzoni sul suo canale YouTube, come l’anatomia di Style di Taylor Swift, distinguendosi anche per lavori più specifici di analisi dei beat e delle rime o di porzioni di grandi classici. Non da meno rispetto al Times, Vox ha messo insieme un repertorio capace di far brillare gli occhi di qualsiasi nerd della musica. Simili, ma dal taglio più documentaristico, i video del canale YouTube Trash Theory che ha ripercorso le origini di pezzi come Clint Eastwood dei Gorillaz o Tainted Love dei Soft Cell, allargando la panoramica sull’impatto che le canzoni analizzate hanno avuto all’interno di una scena, in un periodo storico o più in generale nella musica leggera – “Come Smells Like Teen Spirit ha cambiato il mondo” oppure “Come una B-Side (How Soon Is Now?) ha definito gli Smiths” sono alcuni esempi. Nei giorni intorno a Natale Pitchfork, che nell’aprile 2020 ad esempio presentava al pubblico un Finneas O’Connell intento a scoprire le carte del suo lavoro dietro alle canzoni della sorella Billie Eilish, ha pubblicato i suoi ultimi video “anatomici” con il producer Tainy e con Shawn Mendes. In Italia si sono inseriti in questo solco Internazionale con la rubrica Anatomia di una canzone e Radio24 con il programma Come nasce una canzone.

Sia chiaro, le interviste agli artisti e alle eminenze grigie della musica a proposito della loro merce esistono da quando esiste l’idea che le canzoni possano essere una merce. Alias da parecchio tempo. Un conto però è raccontare un universo artistico – sia esso legato a un brano, a una band, a un collettivo o a una scena – un altro conto è farsi scienziati nel mondo dell’arte, ambire a decostruire qualcosa che fatto a pezzi rischia di smarrire la sua essenza.

La musica è sempre stata in qualche modo nemica dell’ansia di mostrare tutto, quella stessa ansia figlia e madre dei social network dalla quale è sempre più difficile mettersi in salvo. L’alternativa sarebbe la stessa presa di posizione dietro alle varie canzoni al microscopio: l’idea che la musica possa all’occorrenza smettere di essere l’imprevedibile risultato dell’incontro tra chi l’ha composta e chi la ascolta. Sarebbe, insomma, un gran peccato. «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario», scrive Louis-Ferdinand Céline nell’introduzione al suo Viaggio al termine della notte. E prosegue: «Ecco la sua forza».

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