Come ci si sente a essere fuori moda in un’epoca in cui tutti vogliono essere all’ultima moda? I Siberia sono la band giusta cui porre questa domanda: ascoltando il loro nuovo disco Tutti amiamo senza fine, uscito venerdì 29 novembre, viene naturale chiedersi come questi quattro ragazzi di stanza in quel di Livorno potrebbero collocarsi nella scena musicale italiana di oggi, dove sembra che se non sfoderi canzoni alla Calcutta e non sei un (t)rapper difficilmente puoi sperare di crescere. Invece è proprio questo che sognano i Siberia: di crescere, di evolvere il proprio suono e di riuscire a parlare a un pubblico più ampio di quello che li ha seguiti nei precedenti passi, ossia il primo album In un sogno è la mia patria, del 2016, e il secondo Si vuole scappare, del 2018. Ora siamo alla terza prova e a una svolta importante, dato che circa un anno fa il quartetto lanciato da Maciste Dischi è diventato la nuova scommessa della Sugar di Caterina Caselli. Così eccoci a Tutti amiamo senza fine, album prodotto da Federico Nardelli (Gazzelle, Lorenzo Fragola, Ligabue) che tenta di trovare una sintesi tra le diverse anime della band, quella legata alla new wave e quella cantautorale. Il tutto con un’ambizione: «Essere meno derivativi che in passato e aprirci a un linguaggio più diretto, immediato, ma comunque nostro, non allineato con ciò che funziona oggi». Parole del cantante, chitarrista e songwriter del gruppo, Eugenio Sournia, 28 anni. «Come autore di testi ho un animo molto classico, ancorato alla letteratura e alla poesia, ma da qualche tempo ho capito che devo cercare di fare uno sforzo per sintonizzarmi con la contemporaneità», dice lui, che proprio con questo obiettivo si è fatto affiancare nella scrittura di alcuni brani – La canzone dell’estate, Carnevale, My Love e Mon Amour – dal bassista e compagno di band Cristiano Sbolci Tortoli.
A tre anni da un album d’esordio che s’inseriva in una cornice alternative rock e dopo una fase di passaggio tradottasi nella seconda fatica Si vuole scappare i Siberia sfornano, dunque, undici canzoni che conferiscono al quartetto una nuova identità. Vi si avverte il desiderio di trovare una sintesi tra il loro background e il presente in cui sono immersi, ma senza ruffianerie. Così se gli echi dei Baustelle di Francesco Bianconi sono forti e intrecciati con rimandi ai Cure – Piangere è una sorta di crasi tra Charlie fa surf e Friday I’m In Love -, qualche passaggio può far venire in mente il già citato Ligabue, mentre tra i riferimenti voluti compaiono gli Strokes, cui sono chiaramente ispirate le chitarre di Mademoiselle, scritta con Alessandra Flora.
Oltre al cantautorato italiano più classico, vedi Tutti amiamo senza fine, title track dai toni scuri, epici, posizionata in apertura come manifesto d’intenti di un album che indaga l’amore nelle sue più varie sfaccettature, infilando nelle liriche De André, Marlon Brando ed Edith Piaf. «Parliamo di un sentimento inalienabile per l’essere umano», afferma Eugenio prima di menzionare Luigi Tenco come «colui che più di tutti mi sta spingendo alla ricerca di un linguaggio semplice, ma dotato di profondità». E prosegue: «Per quanto si possa tentare di sfuggirgli, l’amore è connaturato alla nostra stessa natura come reazione alla pulsione di morte, alla distruzione di sé. Sta a noi decidere come viverlo, se come qualcosa che ci porta bellezza e ci nobilita o come qualcosa che ci fa male e ci spinge a fare cose brutte. Di qui i versi “tutti amiamo senza fine, perché non ci sia la morte”: è la lotta di eros contro thanatos. O ancora, “tutti amiamo senza fine, anche lei col sangue in bocca, anche lui rimasto solo col suo odio nella testa”, in riferimento alla violenza sulle donne in cui l’amore marcisce e provoca sfaceli».
Il resto dell’album si discosta dall’apertura e conduce su un terreno in cui la malinconia non è assente, ma dialoga con melodie e arrangiamenti tendenzialmente leggeri, ariosi. È il racconto di una generazione – quella dello stesso Sournia – che nei rapporti interpersonali paga lo scotto di vivere in un’era social che spinge pericolosamente all’ossessiva ricerca di conferme da parte degli altri più che alla costruzione di un’autostima basata sull’accettazione di sé. «Oggi abbiamo tutti l’illusione, su Instagram e simili, di poter conquistare i famigerati 15 minuti di celebrità», osserva Eugenio. «Mi ci metto in mezzo anch’io, il mio profilo online è un inno alla mia egomania, ma se ci fermiamo un attimo a riflettere diventa chiaro che questa smania di autocelebrarsi e atteggiarsi da piccole star non è normale. Mentre io vorrei davvero, nella vita, conquistare la normalità. Che poi è la cosa più rivoluzionaria che si possa dire di questi tempi».
Oltre alle luci esistono le ombre, è il pensiero di fondo del singolo di lancio del disco, Ian Curtis, sul senso di inadeguatezza che si può provare da adolescenti. «I maestri nel miscelare cupezza e luminosità sono stati gli Smiths», commenta Eugenio (e come dargli torto?). Poi ci sono pezzi come Piangere, sull’importanza di non sfuggire al dolore, Carnevale, sul pericoloso vizio odierno di nascondere disagi e inquietudini sotto a una patina festaiola perenne, e La canzone dell’estate, in cui Sournia confida, in sostanza, di non essere un autore da tormentone radiofonico. «Sono cresciuto in campagna, a Orciano Pisano, un paesino senza nemmeno l’Adsl e dov’ero perlopiù circondato da familiari e adulti», racconta il 28enne. «Ho avuto difficoltà a rapportarmi da pari con i miei coetanei, avrei voluto essere accettato, ma non lo ero. Pian piano ho capito che non sarò mai una persona semplice e se questo affiora anche nella musica dei Siberia va bene così».
Forse è questa la risposta alla domanda che ci si poneva all’inizio: come ci si sente a essere fuori moda in un’epoca in cui tutti vogliono essere all’ultima moda? «Bene», replica lui. «Più andiamo avanti e più ci rendiamo conto che la cosa giusta da fare è trasmettere ciò che siamo veramente. Per questo Tutti amiamo senza fine è un album in bilico tra mondi diversi, perché noi siamo esattamente così: un po’ epici, cupi e letterari, un po’ pop, leggeri e scanzonati».