All’inizio del 1970 Brian Wilson chiese al manager dei Beach Boys, Fred Vail, di raggiungerlo in una camera d’hotel a Los Angeles. Gli voleva proporre un’idea bizzarra persino per i suoi standard: un disco country da lui prodotto, ma interpretato da Veil. Il fatto che il manager non avesse alcuna esperienza come cantante non lo preoccupava più di tanto.
«Gli ho chiesto: ma tu ha mai scritto una canzone country? Sai quali musicisti chiamare?», ricorda Vail. «Mi disse di no, che toccava a me trovare le canzoni e i musicisti. A quel punto saremmo entrati nei Wally Heider Studios e lì ci avremmo lavorato su».
Ed è quello che è successo per un paio di settimane nell’aprile del ’70. Mentre i Beach Boys lavoravano a Sunflower nello studio accanto, Wilson e Vail registrarono 14 tracce con James Burton alla chitarra, Glen D. Hardin al piano, Red Rhodes alla steel guitar. Solo che nel bel mezzo delle session, prima ancora che Vail potesse cimentarsi con le tracce vocali, Wilson perse ogni interesse nel progetto.
«Aveva altre cose per la testa», spiega Vail, che ora ha 79 anni. «Era ingrassato, dormiva troppo. A quel punto della sua vita aveva tanti casini personali e nessun interesse a finirlo. E quindi i nastri finirono negli archivi dei Beach Boys».
Col passare degli anni, il disco è entrato nel mito dei Beach Boys col titolo di Cows in the Pasture per ragioni che manco Vail ricorda (all’epoca non aveva alcun titolo). Molti fan dei Beach Boys sognavano d’avere un giorno la possibilità di sentire come sarebbe stata la musica country con Wilson dietro il banco di missaggio, grandi musicisti e un cantante inesperto. Il loro sogno di realizzerà nel 2025 quando Cows in the Pasture uscirà unitamente a una docuserie che ripercorrerà l’incredibile carriera di Vail e l’improbabile resurrezione del disco, che si sta ultimando proprio in questi giorni con il produttore Sam Parker e una serie di vocalist ospiti all-star. Wilson è ora produttore esecutivo e voce ospite in uno dei pezzi.
«Fred è sempre stato appassionato di country e di rodei», racconta Brian Wilson a Rolling Stone. «È un uomo un promoter straordinario, sono felice che il suo album stia per uscire».
La storia di Vail nell’industria musicale inizia negli anni ’50, quando era un adolescente precoce che organizzava al suo liceo concerti di Smokey Robinson and the Miracles, Jan & Dean, Diamonds. È riuscito persino a intrufolarsi sul set di The Adventures of Ozzie and Harriet per intervistare Ricky Nelson per il giornale della scuola. «Ho cominciato a fare radio a 12 anni in un programma del sabato mattina. Che fortuna ho avuto ad avere tutte queste opportunità».
Frequentava il corso di giornalismo al Sacramento State College quando una nuova mania musicale travolse la California. «The Twist era stata una mania nel ’60 e nel ’61», ricorda. «Ma era il ’63 ed era arrivato il surf. Tutte le etichette discografiche, piccole o grande che fossero, avevano almeno un gruppo surf. C’erano i Challengers, i Merced Blue Notes, gli Astronauts, i Lively Ones, Dick Dale and The Del-Tones. Di base erano gruppi di chitarristi con una parte vocale limitata».
Quando a Vail fu chiesto di organizzare al Sacramento Memorial Auditorium una raccolta fondi per la El Camino High School, gli venne in mente di chiamare una nuova band che faceva surf e che stava iniziando a farsi un nome a livello nazionale grazie a Surfin’ Safari’ e Surfin’ U.S.A. Erano i Beach Boys e averli costava 750 dollari. Non si allontanavano mai da Los Angles per fare concerti dato che Carl Wilson frequentava ancora il liceo, ma Veil riuscì a comunque a farli venire e tornare in tempo pagando loro l’aereo.
Il concerto del 23 maggio 1963 è stato il primo della band fuori da L.A. Andò così bene che Murry Wilson, manager dei Beach Boys, assunse Vail per organizzare i tour del gruppo nel resto dell’America negli anni successivi. «Ogni volta che andavo a prenderli all’aeroporto, la radio era sintonizzata su una stazione di country, che era la musica che mi piaceva. A 17 anni mettevo in radio dischi country. Io cantavo Johnny Cash o Marty Robbins, loro giravano la manopola per passavano a una stazione pop, io tornavo alla stazione country. Era una specie di gag».
Vail c’era quando Brian Wilson e Mike Love hanno scritto The Warmth of the Sun sul letto di una stanza d’albergo la sera dell’omicidio di JFK. Lui contava l’incasso di un concerto su un letto con Murry Wilson, loro creavano le armonie vocali. È sua la voce che all’inizio del disco Beach Boys Concert del 1964: «E ora da Hawthorne, California, per intrattenervi stasera con un concerto di gala e una session di registrazione, ecco i favolosi Beach Boys!». Lasciò la gestione del gruppo nel 1966 per lavorare al festival Teen-Age Fair a Los Angeles, per poi tornare come manager nel 1969.
Poco dopo Brian Wilson iniziò a ripensare ai giorni in cui Vail cantava sopra ai pezzi country che passavano in radio. Voleva registrare quella voce alle prese con Only the Lonely di Roy Orbison, You Win Again di Hank Williams e There’s Always Something There to Remind Me di Burt Bacharach. «Non abbiamo mai fatto voci di accompagnamento», spiega Vail. «Abbiamo registrato tracce vocali grezze che non abbiamo mai completato. Niente secondi voci, né armonie. C’era parecchia strumentazione. E quando Brian ha perso interesse nella cosa, anch’io me la sono messa alle spalle, tipo lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Non pensavo che ne sarebbe mai scaturito qualcosa».
Una decina d’anni fa, molto dopo aver lasciato il giro dei Beach Boys, Vail ha ricevuto una telefonata dal loro management. «Mi dicono: “Fred, rovistando nel caveau e abbiamo trovato questi cinque nastri da due pollici col tuo nome e quello di Brian. Ne sai qualcosa?”. Ho spiegato che era l’album country che io e Brian avevano iniziato nel 1970 e ho chiesto di non buttare via i nastri, ma di mandarmeli».
Più o meno in quel periodo, Sam Parker, agente/produttore di vari artisti di Nashville e fanatico dei Beach Boys, si è imbattuto in Fred Vail su Facebook. «L’ho contattato, ma non pensavo che mi avrebbe risposto», racconta Parker. «E invece l’ha fatto e gli ho detto che mi sarebbe piaciuto prendere un caffè assieme e sentirlo raccontare qualche storia. Dal primo momento in cui ci siamo incontrati, una voce dentro di me ha detto: “Premi il tasto rec sul tuo telefono”. E meno male che l’ho fatto, perché ogni storia che raccontava era semplicemente sbalorditiva. Quando succedevano le cose, Fred c’era, sempre». Tra i due è nata una bella amicizia. «Ora per me Fred è il nonno che non sono mai riuscito a conoscere».
Quando ha sentito parlare dei nastri di Cows in the Pasture che Vail aveva nel garage di casa, Parker ha cominciato a pensare che fosse l’occasione buona non solo per portare a termine il progetto del ’70, ma anche per raccontare la vita del manager. E perciò entreranno in studio con cantanti di cui non vogliono ancora rivelare i nomi. «Sono leggende del country, del rock’n’roll, del country contemporaneo e anche pop star», dice Parker che non può dire nient’altro se non che sarà coinvolto T Bone Burnett, produttore vincitore di 13 Grammy (le tracce strumentali sono state completate in buona parte nel 1970).
Col tempo la voce di Vail è cambiata e Parker ci ha intravisto la chance di «adottare un approccio alla Johnny Cash. A fine sua carriera, quando non aveva più il twang d’una volta, perciò hanno reinventato la sua voce con una sorta di approccio spoken word, che è più o meno quello che Fred sta facendo in studio».
Una troupe ha ripreso tutto quanto. «Al momento stiamo creando una docuserie in quattro parti», spiega Parker, che aggiunge che Wilson la produrrà con lui. «Il primo episodio racconterà la storia di Fred. Il secondo sarà la storia di Cows in the Pasture. Il terzo si svolge dopo che Fred ha lasciato la California ed è venuto sulla East Coast. Il quarto episodio chiude il tutto con la realizzazione dell’album». Stanno parlando con un distributore importante con l’idea di pubblicare la serie nel 2025. Il progetto non è definito, ma potrebbe include rivisitazioni con attori di momenti chiave della vita di Vail.
Tutta questa attenzione è per Vail travolgente. «Come stare sulle montagne russe. Significa che la roba che abbiamo registrato nell’aprile del ’70 è senza tempo. Ero orgoglioso di quel disco. Anche se è rimasto chiuso in un archivio per decenni, ho sempre pensato: che bello sarebbe tornare in studio e finirlo. E ora sta succedendo».
Da Rolling Stone US.