«Silvio Dante ha messo fine all’apartheid»: vita e opere di Stevie Van Zandt nel documentario ‘Disciple’ | Rolling Stone Italia
Wild Wild Life

«Silvio Dante ha messo fine all’apartheid»: vita e opere di Stevie Van Zandt nel documentario ‘Disciple’

Il musicista racconta le sue avventure nel rock e non solo, dall’istinto quasi suicida dopo aver lasciato Springsteen ai soldi persi in tour negli ultimi anni (e quindi basta Disciples of Soul) fino all’ultimo valzer (forse) con la E Street Band

«Silvio Dante ha messo fine all’apartheid»: vita e opere di Stevie Van Zandt nel documentario ‘Disciple’

Stevie Van Zandt

Foto: Lisa Haun/Michael Ochs Archives/Getty Images

La vera impresa di un documentario sulla vita e le opere di Little Steven Van Zandt è riuscire a farci stare dentro tutto. «Che esistenza complicata», dice il regista Bill Teck, che ha diretto Stevie Van Zandt: Disciple, «Silvio Dante ha messo fine all’apartheid!».

Van Zandt non è solo un membro storico della E Street Band di Bruce Springsteen, è anche il produttore dei grandi dischi anni ’70 di Southside Johnny and the Asbury Jukes, e poi un artista solista con la sua band, i Disciples of Soul, un attore nei Soprano e in Lilyhammer, un attivista che si è battuto per la fine dell’apartheid in Sud Africa con Sun City. E poi c’è l’attività di apostolo del rock che ha intrapreso più di recente col canale Underground Garage di Sirius XM, dove rievoca la storia del rock e del soul, e col programma scolastico TeachRock.

Van Zandt e Teck hanno parlato di questo e altri nel podcast Rolling Stone Music Now. Ecco i punti salienti emersi dalla chiacchierata.

È dimagrito per tornare ad essere una rockstar

«È stato un lungo viaggio mentale e forse anche spirituale. Per un bel pezzo e fino a suppergiù un anno fa ero considerato soprattutto un attore. Era tipo: ero una rockstar un tempo, ma ora sto andando avanti con la mia vita. Poi però Bruce ha rimesso insieme la band (a fine anni ’90, ndr) e c’ero anch’io, ma a mezzo servizio. Quando più di recente stavamo per tornare di nuovo, ed erano passati qualcosa come sette anni dal tour precedente, mi sono detto: questa potrebbe essere l’ultima tournée, devo tornare ad essere una rockstar per una volta ancora. Volevo sorprendere tutti, non esiste che sembrassimo un gruppo di vecchi che tornavano per riprendere la loro routine. Volevo che fosse roba esplosiva, tipo: siamo più vicini alla fine che all’inizio, ma non ce ne andremo zitti zitti. Ho perso 45 chili in sei mesi. Volevo rendere onore alla fedeltà del pubblico, alle canzoni pazzesche di Bruce Springsteen e alla E Street Band, mostrando rispetto e rimettendomi in forma per i concerti».

Avere coinvolto i rapper in ‘Sun City’ è motivo d’orgoglio

Coinvolgere i Run-DMC, Melle Mel, i Fat Boys e Kurtis Blow in Sun City «è stata tanta roba, perché all’inizio l’industria musicale cercava di tenersi lontana da quella roba. Oggi non ce ne rendiamo conto e probabilmente loro negherebbero, ma all’epoca i discografici mi dicevano: “Ma davvero vuoi mettere Melle Mel accanto a Jackson Browne e a Bob Dylan?”. E io: “Ma certo, mi piace questa nuova cosa chiamata rap”. Ho pensato che fosse di importanza fondamentale e sono felice di essere stato all’avanguardia in questo campo, e di averli portati su MTV, il che è stato miracoloso».

Non pensa di continuare la carriera solista

«Non credo proprio, a meno che non vinca alla lotteria. Sto ancora pagando per gli ultimi due tour coi Disciples of Soul, ma sentivo di doverli fare. È molto costoso andare in tour e a meno che non riesca a trovare un mecenate, è improbabile che accada di nuovo. Anzi, è quasi impossibile».

Un istinto quasi suicida lo ha guidato dopo aver lasciato la E Street Band

«Non c’era modo di tornare indietro e quindi sono diventato suicida, il che è stato a suo modo utile. Ok, non ha aiutato il mio matrimonio, ma mi ha permesso di parlare con l’Azanian People’s Organization (il movimento di liberazione sudafricano, ndr), che è da gente tosta, per realizzare il mio scopo e questo senza essere spaventato o temere per la mia vita, come avrebbe fatto una qualunque persona ragionevole. A me invece non importava. Tira fuori quel machete e mozzami la testa, non me ne frega un bel cazzo di niente. Capisci cosa intendo? Ero arrivato al punto di pensare: “Vuoi ammazzarmi? Prego, mi faresti un favore”. Non avevo paura, zero, immagino che derivi dall’impulso suicida di essermi messo alle spalle la mia vita e aver fatto una cosa stupida. Ma in qualche modo ho tenuto duro e il destino mi ha fatto capire che per me non era finita».

Da Rolling Stone US.

Altre notizie su:  Bruce Springsteen Stevie Van Zandt