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Sinéad O’Connor e il destino di un’irregolare

Non ti intratteneva, non ti blandiva, non faceva le mosse giuste e furbe. È stata vessata e minacciata di morte. «Non gli piaceva quel che vedevano allo specchio», diceva. Il problema è stato risolto: il mondo ha smesso di vederla. Oggi la rimpiange. Profilo di un’artista che credeva nel valore del conflitto

Foto: Paul Bergen/Redferns

Non si contano le volte in cui, in questo secolo, abbiamo letto da qualche parte che stava per morire, che forse era morta, che si era suicidata, che d’altra parte cosa ci si poteva aspettare, prima o poi sarebbe successo, e che comunque che differenza avrebbe fatto: era certamente irrecuperabile per la musica, aveva già suicidato la sua carriera. Forse tutti, in qualche modo, aspettavamo solo questo. Che succedesse davvero. Per poi ritrovarci finalmente oggi a raccontare quanto Sinéad O’Connor era coraggiosa e squilibrata, ostinata e controversa, piena di talento e arte ma anche di disprezzo per le regole e, si direbbe, per la sua incapacità di disprezzarle ancora di più. E per raccontare quanto abbia pagato tutto questo, finendo per diventare una specie di barzelletta della musica.

Come spesso succede quando le premesse sono infelici, lo scherzo finale si sta ritorcendo su di lei. Perché oggi tutto il mondo la sta associando a una canzone che non ha scritto. E poi certo, parleremo dei capelli rasati a zero – non è che usasse, negli anni ’80 dei mullet. Specie da parte di una ragazza, per di più con un volto di dolcezza quasi inverosimile, che sarebbe stato perfetto per vendere prodotti brandizzati. Oh, e poi della volta in cui dicendo «combatti il vero nemico» strappò la foto di Papa Wojtyla a Saturday Night Live. Nel 1992, dopo aver intonato War di Bob Marley. Invece di una sua hit. E poi delle relazioni brevi e tumultuose – con Prince, con Peter Gabriel, con un ministro inglese (sposato), con qualcuno che scusate, sul momento ci sfugge, abbiate pazienza. O delle conversioni religiose, quasi parodistiche. Dei tanti matrimoni fallimentari, dei figli, uno dei quali suicidatosi a 17 anni.

Naturalmente poi arriveremo ai problemi mentali, tanti e probabilmente irrisolvibili. Perché se mai c’è stata una Ragazza Interrotta nel rock, è stata lei, in tutti i sensi. A partire da quando, a 14 anni, per “ingestibilità”, i genitori malgrado fossero in piena battaglia per il divorzio su un punto si trovarono d’accordo: mandarla in una casa-famiglia per ragazze problematiche, gestita dalle famigerate suore irlandesi. Ma una cosa l’aiutava. «Quando ero ragazza non ho avuto la possibilità di fare terapia, per questo mi sono rifugiata nella musica. E visto che la musica era la mia terapia, per me è stato uno choc diventare un personaggio pubblico. Io non volevo diventare una popstar. Io volevo urlare».

«Non volevo diventare una popstar, volevo urlare»

Chi lo sa, alla fine forse non è così inaccettabile il fatto che il suo personaggio sia rimasto impresso più delle sue migliori canzoni (anche quelle che la portarono in classifica, o le fecero vincere un cospicuo numero di Grammy o MTV o altri awards). Perché Sinéad O’Connor aveva un rapporto profondo con la musica fin dalla scoperta che cantando riusciva a calmare la madre violenta e disturbata.

Detto questo, è abbastanza noto che non è solo la musica, che viene chiesta agli artisti. In generale, gli si chiede di produrre commercio. Ma in epoche bizzarre, gli si chiede anche altro. E questo “altro”, a lei veniva naturale. «L’arte causa conflitti. Sono cresciuta in Irlanda, dove gli artisti si sono presi carico in modo particolare della responsabilità di dare inizio a certe discussioni complicate che sono difficili da cominciare».

Una cosa che notò presto, in anni in cui sembrava ancora che le canzoni potessero porre fine alla fame nel mondo e alla deforestazione in Amazzonia e liberare Nelson Mandela, che cantare per esempio la toccante Black Boys on Mopeds sui poliziotti che sparavano ai ragazzi neri, non portava a quelle discussioni complicate. E nemmeno boicottare i Grammy Awards (tre anni dopo un messaggio di solidarietà ai Public Enemy per l’assenza dell’hip-hop come categoria), per dichiarare la propria insofferenza nei confronti di un business basato sull’avidità, nel quale i suoi colleghi creativi non se la sentivano di pronunciarsi sulla Guerra nel Golfo.

Nessuna canzone avrebbe potuto esprimere quanto aveva sofferto nell’Irlanda del Cattolicesimo repressivo specialmente nei confronti delle donne (con la copertura dal Vaticano, denunciata anni dopo dal film Magdalene). Di qui, la distruzione della foto del Papa. Che rivista oggi, colpisce per la semplicità con cui viene effettuato il gesto, una performance artistica più vicina a un atto religioso che una provocazione.

Ovviamente oggi la si definirebbe una mossa per ottenere visibilità. Ma tutto ciò avveniva quando il suo disco era al numero uno negli Stati Uniti e veniva premiata ovunque per l’eccellente I Do Not Want What I Haven’t Got e l’unica cosa che poteva succedere era il contrario: diventare invisibile. Puntualmente, accadde. Non prima di essere sepolta di indignazione da ogni parte: sia dall’ambiente musicale (schernita da Madonna, coperta di fischi dai fan di Bob Dylan – avessi detto quelli di Frank Sinatra! Che comunque fece sapere che l’avrebbe presa a calci). Sia da intellettuali che in teoria avrebbero potuto essere dalla sua parte: «Nel caso di Sinéad O’Connor la violenza sui bambini può essere giustificata» (la femminista Camille Paglia, nel 1992).

«L’arte causa conflitti»

Boicottata da un numero esorbitante di radio, insultata e minacciata di morte (in era pre-internet, con migliaia di lettere e francobolli, quindi pagando), messa all’indice. “Shut UP, Sinéad” titolò il Sun, emblema della cara, reazionaria Inghilterra. «Non gli piaceva quello che vedevano nello specchio», fu il suo commento. Forse era così. Ma il problema venne risolto: il mondo smise di vederla.

Certo, la mancanza di una carriera lineare e della capacità di realizzare “prodotti” discografici ebbe il suo peso, anche i suoi fan lo sanno benissimo. E la difficoltà nell’intervistarla, cercando di dare una forma al suo flusso di accuse e professioni di fede e sentenze, è cosa abbastanza nota ai giornalisti che ci hanno provato in questo secolo – incluso chi vi scrive ora, colpito e affondato in pochi secondi una prima volta, e in pochi minuti qualche anno dopo. Nessun biasimo, comunque, solo dispiacere per avere sprecato l’occasione di parlarle, anche se qualche anno fa è stata lei a dire «non posso biasimare nessuno per avermi considerata pazza».

«Non gli piaceva quel che vedevano allo specchio»

Tornata a fare musica per se stessa, o «per fare qualcosa di bello» (come disse del religiosissimo Theology, del 2007), perse sia il grosso pubblico dell’accessibile I Do Not Want What I Haven’t Got che i fan del primissimo e tuttora deflagrante The Lion and the Cobra. Le giovani generazioni difficilmente ne avranno sentito parlare, e pochi tra i suoi colleghi musicisti, fino a ieri, la menzionavano per qualche motivo.

Negli ultimi trent’anni i suoi dischi non hanno mai attirato l’attenzione dei media quanto i nuovi look sconcertanti o i post allarmanti sui social (secondo ogni manuale di psicologia for dummies: “richieste d’aiuto”). Per esempio: «Mi sono fatta un’overdose, non c’è altro modo di ottenere rispetto. Finalmente vi siete sbarazzati di me», oppure «Sono sola, tutti mi trattano male, non c’è niente nella mia vita e sono malata. Come la droga, le malattie mentali ti bollano per sempre: tutte le persone che dovrebbero amarti ti trattano male».

Oggi no, oggi tutti la trattiamo bene. Poi va beh, da domani continueremo a preferire cantanti che abbiano l’accortezza di non rompere le palle e ci divertano, si vantino delle loro Lambo e delle loro Gucci bag e del loro successo, oppure – se vengono da epoche bizzarre – che si limitino a riproporre per l’ennesima volta le vecchie hit. E di tutto questo daremo la colpa a voi, stolto pubblico senza coraggio.

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