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Smettiamo di contare gli ascolti su Spotify e cominciamo a pesarli

Contro il dominio dei numeri. Un disco che sentiamo di continuo non vale più di uno che sentiamo un paio di volte. Non è detto che la musica che ascoltiamo spesso sia quella che ci forma e ci cambia

Foto: Sara Kurfess/Unsplash

Le vedo ancora quando scrollo la home dei servizi di streaming. Spotify la chiama ‘I tuoi brani preferiti del 2020’, per Tidal è ‘My Most Listened 2020’, ma il concetto è lo stesso: sono le playlist delle canzoni che ho più ascoltato nel corso dell’ultimo anno. Ogni utente ne ha una ed è invitato a condividerla. Le mie playlist del 2020 sono un gran casino, un mischione di successi pop globali e indie italiano, country e musica contemporanea, Kate Gately e VV, Motorpsycho e Janelle Monáe, Nicole Atkins e Nicolás Jaar. I numeri non mentono: questa è la musica che ascolto, al netto naturalmente di quel che metto nel lettore CD e sul piatto. Ma è anche la musica che amo?

Nel dicembre 2014, quando Billboard ha annunciato che avrebbe iniziato a compilare le sue celebri classifiche tenendo conto anche degli ascolti in streaming e non solo delle copie effettivamente vendute, il vicepresidente del dipartimento Charts & Data Silvio Pietroluongo disse una cosa interessante, a difesa del nuovo sistema di computo: «La vendita degli album riflette in buona sostanza l’impulso iniziale, ma non indica la profondità del consumo». Lì per lì m’è parsa una cosa vera e giusta: le classifiche non avrebbero più registrato solo l’acquisto di un CD o di un vinile, ma anche l’effettivo ascolto. Avrebbero riflesso in modo più veritiero il nostro consumo di musica e quindi anche i nostri gusti.

Mettiamola così: un tempo, un CD di Wrecking Ball di Bruce Springsteen comprato per abitudine e ascoltato due volte valeva ai fini della rilevazione statistica tanto quanto la copia di Born to Die di Lana Del Rey ascoltata decine di volte (o viceversa, è solo un esempio). Ora – ragionavo – i numeri ci avrebbero detto la verità, facendo strage dei dischi regalati dagli amici e mai ascoltati, degli acquisti di cui ci siamo pentiti, degli album presi per moda o per attaccamento emotivo all’autore. È un’interessante specificità della musica. Anche i libri vengono venduti in digitale, ma non c’è classifica aggregata che t’informi su quante pagine vengono effettivamente lette dagli italiani di questo o di quel best seller (se ci fosse, la consulterei volentieri).

È un discorso che non vale solo in aggregato, ragionando cioè sulla somma degli streaming effettuati da tutti noi, ma anche a livello individuale. Che l’ascolto corrisponda al gradimento è un fatto accettato da tempo dagli appassionati di musica come una verità che li riguarda. «Dopo l’entusiasmo iniziale non ho più ascoltato quel disco, qualcosa vorrà pur dire» è una frase che ho sentito ripetere decine di volte. Sottintende l’idea che se non senti un disco che hai comprato o a cui puoi accedere dal tuo telefono significa che l’album in questione non ha valore. Se lo avesse, saresti spinto a risentirlo.

E perciò, prima ancora che lo facesse Billboard, abbiamo imparato a conteggiare approssimativamente la musica che ascoltiamo. È un tipo di contabilità che a cui nell’epoca pre streaming ci ha abituati iTunes, il lettore musicale della Apple che per ogni canzone indicava il numero di ascolti effettuati su quel particolare computer. Nel 2004, quando Daniel Ek aveva 21 anni e gli americani compravano i dischi di Ashlee Simpson e Avril Lavigne, su Wittgenstein Luca Sofri aboliva la lista dei migliori dischi dell’anno introducendo l’elenco delle canzoni più suonate da iTunes sul suo computer, che «almeno ha una qualche microscopica concretezza». Titolo del post: “I fatti separati dalle opinioni” (lo fa ancora, qui c’è la lista del 2020 col link alle precedenti). Ogni volta che mi capita di leggerla, la classifica di Sofri un po’ mi mette in crisi: è forse questo il modo più corretto di decidere qual è la musica preferita dell’anno passato? Sbaglio a pormi domande su concetti astratti come importanza o impatto emotivo? Io sono quello che ascolto? O meglio, io sono quello che ascolto più spesso?

Sedici anni dopo, su Spotify Ashlee Simpson totalizza nel mondo gli stessi stream che Francesca Michielin fa in Italia, Avril Lavigne è stata sostituita da una sosia (ah ah ah) e la comunicazione dei numeri è entrata prepotentemente nella conversazione sulla musica. Non c’è giorno in cui un cantante o una band, piccola o grande che sia, non comunichi al mondo un traguardo tagliato e misurabile quantitativamente: copie equivalenti vendute, visualizzazioni su YouTube, ascolti su Spotify. I numeri hanno vinto, sia a livello aggregato, sia nella nostra percezione individuale. Mi chiedo però se sia sensato.

La domanda che pongo è: la quantità di ascolti è davvero misura del successo di una canzone, di un disco, di un artista? E per successo per una volta non intendo la popolarità di un pezzo, ma il suo impatto. A giudicare dalla mia esperienza di ascoltatore assiduo direi di no. Non ho modo di verificarlo, ma sono certo di avere ascoltato Death Magnetic dei Metallica più volte di Thrak dei King Crimson. Eppure se dovessi privarmi per il resto della vita dell’ascolto di uno dei due album, rinuncerei senza dubbio al primo. Credo di avere sentito What’s Inside: Songs from Waitress di Sara Bareilles più di The Hissing of Summer Lawns di Joni Mitchell, eppure preferisco il secondo. E non perché i miei gusti sono cambiati, e non perché considero uno un guilty pleasure e l’altro un ascolto legittimato culturalmente.

Succede perché non tutta la musica che ha un forte impatto sia razionale che emotivo si presta ad essere ascoltata ripetutamente. Ci sono esperienze musicali che segnano, ascolti trasformativi che arrivano a cambiare persino la tua concezione della musica. E sapete cosa? Potete ascoltare quelle cose anche una sola volta e la vostra vita nei suoni non sarà più la stessa. Giudicare la musica in base alla capacità d’invitare al riascolto ripetuto è limitante, non tiene conto dell’impatto che i suoni hanno su di noi, marginalizza la musica che magari è complessa e non si può ascoltare di continuo, ma che lascia un’impronta profonda e permette di accedere a nuovi mondi. È vero che un disco non è un libro che nella maggior parte dei casi compie la sua funzione dopo una sola lettura, ma non è nemmeno un’opera il cui effetto si esaurisce nella gratificazione derivante dalla ripetizione. Attribuire un valore eccessivo alle metriche significa svalutare parte della funzione della musica.

C’è un’altra cosa, laterale a questo discorso, ma non meno essenziale, anzi. Da quando l’ascolto è diventato un atto più importante dell’acquisto i musicisti si sono impoveriti. Non le superstar che fanno grandi numeri, ma band e cantanti con un pubblico di poche centinaia di migliaia di persone che un tempo ne assicuravano il sostentamento comprandone i dischi. È un discorso lungo, ci porterebbe lontano ed è stato più volte affrontato anche qui su Rolling Stone. Ci siamo abituati ad avere tutta la musica del mondo gratis oppure a 9,99 euro al mese e non si torna indietro. Non scordiamo però che il meccanismo che sta dietro alla remunerazione della musica registrata premia i creatori di canzoni che si prestano alla ripetizione dell’ascolto e non le opere che qualche riga sopra ho chiamato trasformative.

La musica che ascoltiamo più spesso non è per forza quella che amiamo più profondamente. Non succederà mai, ma sogno il giorno in cui qualcuno troverà un modo per pesare gli streaming e non solo contarli.

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