Sono passati solo dieci anni eppure è tutto diverso. Se nel 2009 eri uno che divorava i dischi e le riviste musicali, in quel periodo stavi di sicuro attaccato all’ADSL per aspettare l’uscita dei Top 50 Albums of 2009 di Pitchfork, la celebre classifica del sito americano. Si iniziava a supporre che siti e blog avrebbero fatto le scarpe alla carta stampata e il web sembrava ancora una terra vergine per gli utenti che si costruivano sul pc gli sfondi da usare su MySpace. Era ancora tutto personalizzabile. In pochi avevano un iPhone 3GS in tasca e se volevi capirci qualcosa di musica toccava leggerti riviste specializzate e pipponi infiniti sui siti americani.
Non prendete questo incipit come un nostalgico “si stava meglio quando si stava peggio” quanto come constatazione. Questa epifania mi si è irradiata nelle sinapsi del cervello fino quasi a commuovermi appena ho letto che per festeggiare i dieci anni di Merriweather Post Pavilion, gli Animal Collective avrebbero pubblicato un album live dal titolo Ballet Slippers con dodici tracce dal vivo registrato nel magistrale tour del 2009, l’anno in cui si aggiudicarono il primo posto proprio nella classifica di Pitchfork.
Merriweather era un album spigoloso e irresistibile, una sorta di musica da camera ma tutta fatta al computer, qualcosa che mixava la babele dei suoni emessi dalle band di tutti i decenni precedenti e in tutti i generi precedenti e risputava fuori un oggetto moderno, che raccontava la nostra voglia di fare festa, di sbracare, magari anche di essere un po’ fuori di testa. Era roba elettronica ma con influenze dei Beach Boys, pop ma col piglio degli MGMT, insomma si poneva come un disco brillante, che sarebbe rimasto. Ed è rimasto, ma nel 2009.
Il 2009 era ancora un periodo in cui i musicisti si dovevano dare da fare per costruire dischi che la gente scaricava illegalmente, ma che avevano un senso solo se ascoltati dall’inizio alla fine. Era un periodo in cui le band si forgiavano sul sound prima che sull’immagine, nonostante già ci fossero i videoclip, internet e YouTube (sebbene avesse solo 4 anni) vantasse centinaia di milioni di visite al giorno. Per sfondare dovevi spaccare con gli strumenti. Punto. Non c’erano Spotify e la cultura del singolo come intendiamo oggi. Non c’erano i social (o meglio c’era già Facebook ma in confronto a oggi era deserto), c’erano meno AutoTune e la scena indipendente americana voleva ancora battere il ferro caldissimo dell’avanguardia. Diciamo che i musicisti volevano essere considerati artisti impegnati e Pitchfork era il tripudio di questa ideologia per cui per fare buona musica si doveva per forza dire qualcosa. Ed è forse questo che ha rovinato l’atmosfera.
Se una band come gli Animal Collective ristampa il suo unico classico a soli dieci anni dall’uscita e l’operazione suona come nostalgica, vuol dire che quei dieci anni contano il triplo. Non è rimasto niente di quella scena. Sono spariti: Liars, Deerhunter, No Age, Dirty Projectors, Grizzly Bear, Bat for Lashes, Phoenix, Girls, Fuck Buttons, Yeah Yeah Yeahs, Japandroids, Neon Indian, The Pains of Being Pure at Heart, Real Estate. Band che erano nei primi venti posti di quella famosa classifica di Pitchfork. Band che animavano il Primavera Sound e il Coachella, ma che non hanno più niente da dare in pasto al presente, alla sua narrazione. Cosa è successo? Sembrava che il futuro sarebbe stato loro.
È successo che la musica underground ha perso la sua battaglia combattendo contro se stessa, diventando troppo cervellotica e noiosa per essere ascoltata. Perché devo ammazzarmi di menate e cercare di intonare qualcosa di non intonabile come un qualsiasi pezzo di Merriweather Post Pavilion quando posso fischiettare Billie Eilish (che oltretutto è pura avanguardia e fa musica stupenda)? Mentre Pitchfork portava avanti la sua musica ideologica, su Billboard nelle prime venti posizioni del 2009 si trovavano Drake, Lady Gaga, Taylor Swift, Kanye West, Pitbull, Rihanna, ecc. Tutti artisti che oggi sono ancora sulla cresta dell’onda. Come a dire: la cultura di massa stava letteralmente riscrivendo il canone. Un canone che non aveva voglia di rumori strani, ma di tornare a cantare dopo decenni passati a cercare di digerire di tutto, dai Sonic Youth a Panda Bear.
Ma nel 2009 deve esserci stato un qualche tipo di loop temporale da cui è difficile evolversi se gli Animal Collective si autocelebrano (nonostante non abbiano mai più lasciato il segno) e pubblicano un disco e un’edizione deluxe con un triplo vinile. Una soluzione radicale per rivendicare un’appartenenza a quel mondo alto, altissimo, irraggiungibile. Sul triplo album non mi pronuncio, ma sul doppio ha chiosato bene Noel Gallagher a Rolling Stone USA nel 2013: “Chiunque esca fuori con un doppio album dovrebbe infilarselo prima nel culo. Non sono più gli anni ’70, ok? Chi cazzo ha tempo, nel 2013, di dedicare 45 minuti ad album? Quanto devi essere arrogante per aspettarti che la gente stia un’ora e mezza ad ascoltare il tuo doppio album di merda?”. Era il 2013. Figuriamoci cosa direbbe oggi.