Siamo abituati a immaginare Elio e le Storie Tese, a livello mediatico, come (per citare loro stessi) dei “piccoli energumeni”: le comparsate teatrali a Sanremo, le ospitate a mo’ di sabotatori nei salotti tv, come pure gli elogi unanimi come “grandi musicisti” e il titolo di alfieri della musica demenziale. Ma non è stato sempre così, e anzi – prima di quella che Wikipedia definisce la loro “ascesa mediatica”: il successo di Pipppero nel 1992 – la band era agli antipodi, percepita/non percepita come un fenomeno borderline di cui non andare fieri. Ecco: Elio samaga hukapan kariyana turu, il loro disco d’esordio datato 6 dicembre 1989, trent’anni fa, è il manifesto di quella stagione.
Già che parliamo di un lavoro con in copertina un mostro, dietro a un titolo in singalese traducibile in “fotti con Elio fino a eiaculare (ehm)”, si capisce che non è niente di ruffiano. Semmai, è l’epifania di una band (all’epoca composta da Elio, Rocco Tanica, Faso, Cesareo e dall’allora neo-entrato Feiez, con Meyer in pianta stabile solo dal 1990) ancora fenomeno di culto, underground come non sarebbe più stata: sfigata, ascoltata dai giovani, con testi proibiti zeppi di riferimenti che definire nerd è riduttivo, segnati da un’ironia oscena e scorretta. Al ballo dei debuttanti, insomma, loro arrivano come dei selvaggi, meno vicini al solito Zappa e più goliardici, e per questo Elio samaga hukapan kariyana turu è probabilmente il loro unico album da cameretta: sporco, ingenuo, cattivo. A sorpresa, solo di prenotazioni il disco venderà 100 mila copie, segnando un punto d’arrivo e un punto di partenza per il “complessino”. Ma andiamo con ordine.
Se oggi celebriamo “trent’anni dall’album d’esordio degli Elii”, non possiamo altrettanto dire “trent’anni di Elii”: il gruppo esisteva dal 1980, e fra cambi di formazione e concertini si era costruito una street cred da Milano a tutto il nord Italia. Chiaro: non c’era internet e si viaggiava col passaparola. Però andò davvero così: il “culto del monociglio” nacque dai nastri pirata con le varie Alfieri, La saga di Addolorato e Cara ti amo registrati ai primi live del gruppo, che gli adolescenti ascoltavano di nascosto nelle camerette. Lo stile era in parte acerbo, in parte già rodato: testi fra il volgare, il nonsense e il cabaret à la Zelig (uno dei locali in cui i cinque si erano formati, tra l’altro), uniti a un’attenzione maniacale per l’apparato tecnico. Un mondo, questo, trasposto in Elio samaga hukapan kariyana turu senza scrupoli. Ma in più, rispetto a un bootleg, qui trovano spazio tutti i vantaggi che uno studio professionale (lo Pshyco di Milano) e una produzione vera (firmata Claudio Dentes) possono offrire, come la vastità degli arrangiamenti, gli intermezzi, le citazioni nascoste all’Olimpo della musica e un effetto che rende la voce di Elio incredibilmente nasale – così: senza senso. Uniti, ovviamente, a una serie di pezzi ispiratissimi ed esilaranti, che saranno i loro primi, veri cavalli di battaglia a livello nazionale.
Si inizia con John Holmes (una vita per il cinema), cavalcata quasi hard rock che marca il territorio con giochi di parole, oscenità e personaggi culto come (appunto) il pornoattore John Holmes (“30 cm di dimensione artistica”). Chi altri aveva mai dedicato un pezzo a una star del cinema a luci rosse? Appunto. Anche il resto è un circo di gag e situazioni non da meno, tipo il cazzeggio di Cassonetto differenziato per il frutto del peccato o la pseudo-Zecchino d’oro di Silos, una sorta di canzone per bambini che invita a risolvere il problema della fame nel mondo rendendo commestibili le “svariate sostanze” che “secerne il nostro organismo” – ci siamo capiti. E se Abitudinario è un cumulo di paranoie grottesche (“Leggo la targhetta sopra l’ascensore: qual è la capienza, quanti chili porta / Poi si apre la porta e non lo so già più”), e Carro, che nell’intro cita i Beatles di Back in the USSR, è due canzoni in una (basta sostituire le “r” della parola con le “z”), il vertice lo tocca Cara ti amo, in un improvvisato botta e risposta uomo-donna sulle relazioni: “Vorrei palparti le tette – Porco! – Mai ti toccherei neanche con un fiore – Finocchio!”. Il risultato finale, per quanto ingenuo e giovanile, è già Elio e le storie tese al 100%: un vortice intelligente di sconcezze, parodie, ricerca lessicale e pezzi tecnicamente profondissimi, quasi ossimorici rispetto alla demenzialità delle liriche. Roba, dicevamo, per nerd o intellettuali da cameretta, che si riconosco a vicenda. E non si prendono sul serio.
Sulla scia di ciò, nel 1990 Elio e le Storie Tese troveranno il successo nazionale, garantendosi un ultimo giro ai limiti della legalità: scriveranno versioni dissacranti dei brani di Sanremo di quell’anno senza chiederne i diritti, faranno incazzare i Testimoni di Geova con la copertina iconoclasta della loro Born to Be Abramo (un singolo che cita anche Born to Be Alive di Patrick Hernandez, a cui – indovinate – non chiederanno i diritti) e chiuderanno con un disco natalizio volutamente sconclusionato. Poi cresceranno, con tutte le inflessioni adulte del caso nella comicità, specie dopo la scomparsa di Feiez del 1998. Ma Elio samaga hukapan kariyana turu, in questo senso, rimarrà la bussola.
E certo, la musica demenziale non è nata con gli Elii: prima c’erano gli Squallor, e i padri putativi degli Skiantos. Ma si trattava di fenomeni underground: il merito di Elio e soci è stato sdoganare il genere al grande pubblico, trovandogli una dimensione nazionalpopolare già nel 1990, per poi passare ai successoni di Pipppero, La terra dei cachi e via discorrendo.
La cosa che più mi aveva colpito – e fatto pensare agli esordi – quando nel 2017 i nostri annunciarono il ritiro, era stato il motivo: “Bisogna avere l’intelligenza di capire di essere fuori dal tempo”, disse Elio. Era vero: vuoi per scollamento dalla realtà, vuoi per la mancanza dell’ispirazione che aveva illuminato i loro primi lavori – compreso quell’İtalyan, Rum Casusu Çikti (“Italiano, spia greca espulsa”: niente di scabroso) che è un Elio samaga hukapan kariyana turu ripulito dall’estetica adolescenziale – la band era sempre meno demenziale, e sempre più distante dai giovani. Ci sta: la comicità invecchia peggio della musica. Eppure, riascoltate oggi, canzoni come John Holmes e Silos sono ancora trasgressive, dissacranti come nel 1989. Segno che, fra black humour all’italiana e pornoattori, in quella cameretta da adolescenti col monociglio c’era sepolto l’oro.