Un inglese, un olandese e un cinese entrano in uno studio di registrazione in California… Sembra l’incipit di una barzelletta vintage raccontata dallo zio fracico a un matrimonio e invece è la storia di una delle collaborazioni più assurde ed estemporanee della storia del rock.
Star Fleet è una serie giapponese dichiarassimo omaggio nipponico a Thunderbirds degli inglesi Gerry e Sylvia Anderson nel 1964, il primo telefilm a impiegare l’utilizzo di marionette animatroniche (che Anderson battezzò supermarionation), modellini in scala ed effetti speciali ottici e fisici. Realizzato nel 1981 dal leggendario mangaka Go Nagai (quello di Devilman, Getter Robot, Mazinga, Goldrake e svariati altri) sull’onda nel mostruoso successo di Star Wars, Star Fleet impiega le stesse marionette di Anderson (ovviamente migliorate grazie al progresso tecnologico e ribattezzate da Nagai supermariorama) impegnate a scongiurare una minaccia aliena che vuole spazzare via la terra dall’universo ma, siccome stiamo parlando dei giapponesi, lo fanno con l’immancabile squadra di astronavi in grado di unirsi e trasformarsi in un possente robottone, X-Bomber (che è il titolo originale del serial, giunto anche sulle nostre reti intorno alla metà degli anni ’80).
Nei primi anni ’80 Star Fleet è un discreto successo anche in Inghilterra, dove va in onda il sabato mattina. E qui entra in gioco il riccioluto axeman dei Queen, Brian May: suo figlio Jimmy che a quel tempo ha quattro anni lo butta sistematicamente giù dal letto per costringerlo a guardare insieme a lui una nuova puntata di. May, criniera arruffata e occhi cisposi, sciabatta fino al salotto e si lascia cadere sul divano mugugnando. Quando inizia la serie però sgrana le pupille e drizza le orecchie: a colpirlo è la qualità degli episodi ma soprattutto la sigla di apertura, composta da Paul Bliss, già tastierista per i Moody Blues. Si tratta di un brano catch con – ovviamente – una trionfale apertura di tastieroni e un ritornello i cui cori sono vagamente reminiscenti dell’epicità di Flash, la title track della colonna sonora dei Queen per l’omonimo film cult di De Laurentis con Max Von Sydow e Ornella Muti. La melodia si insinua come un parassita dormiente nelle sinapsi di May fino al 1983, quando si trova nella sua casa di Los Angeles.
È un periodo di stallo creativo per i Queen, il gruppo che May ha fondato poco più che ragazzino con gli amici e che in circa un decennio è diventato una gigantesca macchina sforna hit multiplatino in tutto il mondo. I membri ormai sono adulti e miliardari e le frizioni interne iniziano creare surriscaldamento, tanto che si decide di fare una pausa. Brian, trovandosi inaspettatamente con del tempo libero a disposizione, fa quello che faremmo tutti quando restiamo da soli a casa dopo anni di convivenza con la moglie che è andata a trovare i parenti nel weekend: si attacca al telefono e inizia a chiamare gli amici per fare un po’ di casino. Ma mentre noi finiremmo a scassarci di birre e a vegetare davanti alla PlayStation, Brian May siccome è Brian May prenota delle sessioni di registrazione al leggendario Record Plant e raduna dei musicisti di primissimo ordine.
Eddie Van Halen, uno dei più grandi chitarristi di sempre, non ha certo bisogno di presentazioni. May lo ha conosciuto anni fa grazie al comune amico Tony Iommi dei Black Sabbath e i due hanno subito stretto una bella amicizia fondata sul reciproco rispetto umano e chitarristico. Phil Chen, prestigioso session player e noto per le sue collaborazioni con Jeff Beck e la sua militanza nella band di Rod Stewart, è un vecchio amico di Brian e casualmente anche lui in quel momento si gira i pollici. A completare la band ci sono Alan Gratzer, batterista dalla mano pesante dei REO Speedwagon e vicino di casa di May a L.A. e Fred Mandel, tastierista e prodigio dei synth già in forze nel gruppo di Alice Cooper e impiegato dagli stessi Queen in quel periodo come quinto membro live.
I cinque arrivano in studio senza sapere bene cosa fare, non hanno mai suonato insieme e non hanno una direzione precisa salvo un’idea di May: rifare la sigla di Star Fleet, memore di suo figlio Jimmy che gli diceva «secondo me dovresti suonare questa sigla papà, sarebbe fichissima!». Il risultato prende velocemente forma durante le registrazioni (tutte in analogico): una power song su steroidi istantaneamente reminiscente dei Queen ma in cui spadroneggiano i fraseggi pirotecnici dei due chitarristi. May ha più volte dichiarato di voler creare un template, una base sulla quale Van Halen fosse libero di sperimentare ed è proprio quello che fa Eddie: possiamo apprezzarne i funambolismi (armonici artificiali, string skipping, tapping e brutalizzazioni varie della leva vibrato) che dialogano con gli interventi dallo stile più sobrio e “orchestrale” di May.
Ricordo benissimo la mia sorpresa nel 1988 quando, dodicenne, aggirandomi fra i bancali di Transex Dischi di Milano (defuntissimo negozio di via Dogana specializzato il metal e altra musica degenerata), mal sopportato dai commessi che capivano bene avrei solo gironzolato senza comprare una minchia (non avevo mai soldi) trovai un vinile che aveva un robottone giapponese in copertina e recava in calce la dicitura Brian May & Friends. E per un aspirante chitarrista in erba come me vedere il leggendario Queen a braccetto con Van Halen – l’ambasciatore del virtuosismo anni ’80 – era come trovare un’oasi dopo due giorni nel deserto. Il retro di copertina informava che si trattava di un “mini-album”, qualcosa di troppo corto per essere un vero e proprio disco ma sufficientemente esteso da trascendere i limiti del singolo. E costava solo 8000 lire: potevo permettermelo.
Tornai a casa e iniziai a farlo girare forsennatamente sul piatto del vecchio Technichs di mio padre, convinto di aver scovato una rarissima e inestimabile gemma grezza incastonata in una miniera di carbone: si capiva che era grezza dal fatto che il missaggio era ridotto al minimo, si potevano sentire le corde delle chitarre stridere e invocare invano pietà sotto i polpastrelli di Eddie. E si capiva che era rara perché, parlandone coi miei amici, scoprii che nessuno ne aveva mai sentito parlare, né in tv né sui giornali, né in radio (le principali fonti di informazione di allora). E nessuno aveva quel vinile.
Più tardi avrei scoperto che, dato originariamente alle stampe nel novembre del 1983, il singolo Star Fleet aveva raggiunto la poco ragguardevole posizione 35 nella classifica inglese e 125 in quella americana, senza ricevere il minimo airplay e quasi istantaneamente bollato come divertissement autoindulgente tra rockstar con un weekend libero dalla stampa specializzata.
La mia copia del disco originale ha riposato per anni indisturbata sulla mensola finché qualche mese fa è arrivata la notizia: da anni impegnato a ristampare e archiviare con solerzia il proprio materiale solista, Brian May decide di ridare alle stampe Star Fleet, che negli anni ha acquisito un seguito di culto di tutto riespetto.
Il cofanetto include un booklet che racconta la storia del progetto, una spilla, il vinile originale ristampato e remixato a partire dalle tracce originali e due cd con tutte le take realizzate in studio (sono circa 12) in cui possiamo sentire come cinque amici che non hanno mai suonato insieme prendano le misure, si aggiustino, si scaldino fino a diventare un affiatatissimo combo che picchia forte e duro. Errori, false partenze, scoregge comprese. Certo, è la classica operazione volta a soddisfare il completista compulsivo più esigente ma è anche un atto d’amore di May nei confronti di un amico e collega scomparso troppo presto, che qui, senza vincoli o pressioni di nessun tipo imposti da ego e mercato, è libero di fare quello che gli riesce meglio: trasformare una normale chitarra elettrica in una sorta di astronave che viene da un altro pianeta.