Con il moltiplicarsi esponenziale dei concerti rap in Italia, è nata una nuova categoria di pubblico: quella che di concerti ne ha frequentati tanti, ma non ha familiarità con il linguaggio sonoro specifico dell’hip hop dal vivo. Per intenderci, spesso sono le stesse persone che faticano ad accettare l’utilizzo del verbo “suonare” se applicato a un dj. Che esternino le loro perplessità via Twitter, sotto un palco o davanti alla diretta televisiva del concerto di Fedez e J-Ax, poco importa: essi vivono e sono tra noi. Fuori tempo massimo, forse, ma ci sono. Da una parte, la loro posizione è comprensibile: i rapper sono approdati al circuito dei live mainstream relativamente di recente, e se si considera quanta acqua è dovuta passare sotto i ponti – Luciano Berio, il Moog, il theremin, la musica elettronica, la club culture e quella hip hop – prima che si accettasse come un dato di fatto che anche strumenti non analogici o non tradizionali avessero pari dignità e diritto di cittadinanza in questo grande serraglio che è la musica. Ma l’utilizzo di console da dj, distorsori della voce e tracce preregistrate spesso genera un pregiudizio radicato: che l’hip hop valga meno degli altri generi musicali. Che sia roba di serie B, in sostanza.
C’è un motivo se l’hip hop – che in realtà di serie B non è affatto, tant’è che si è evoluto fino a diventare uno dei generi più amati e innovativi del pianeta, nonché il più amato e innovativo del momento in Italia – non ha mai abbandonato i beat, i dj e gli artifici elettronici a favore delle sole band. È un omaggio alle sue origini, che affondano nella cultura dei sound system giamaicani. Ma soprattutto, è un omaggio a quei pionieri che nella New York degli anni ’70 non avevano soldi per fare musica, e neanche per entrare in un locale ad ascoltarla, così rubavano il giradischi dei genitori, lo attaccavano abusivamente a un palo della luce e si inventavano un block party. Ovvero, una festa in cui i rapper improvvisavano rime stonate su loop infiniti gentilmente forniti dai dj, che li ricavavano con grande perizia e tecnica dagli intro e dagli outro dei dischi. Non è un caso se la nascita dell’hip hop si fa tradizionalmente coincidere con il primo block party organizzato da Kool Herc 49 anni fa, l’11 agosto 1973, per festeggiare il rientro a scuola.
Per il rap, rinunciare del tutto alle basi e ai piatti sarebbe come rinunciare del tutto alle chitarre per il rock, ovvero al suo strumento primario. E infatti, non a caso, perfino un artista a 360° come Salmo, uno che ha scardinato molti stereotipi del rap e che a San Siro si è portato dietro una band degna dei Rage Against the Machine, ha strutturato il suo show in due parti, dedicando la seconda al più classico degli assetti hip hop: microfono + giradischi, governati dal superbo Damianito. Chi è Damianito ve lo spieghiamo più avanti.
Al di là di tutto, comunque, quando si parla di un argomento così divisivo (leggi: in cosa consiste il concetto di musica dal vivo?) è facile cadere nel populismo e nella partigianeria, se non si fanno dei distinguo. E il primo, indispensabile distinguo da fare è tra rapper e rapper: non sono tutti uguali, non tutti fanno la stessa cosa. Per ogni gruppo come i Cypress Hill, che amano le interazioni con le band, c’è un gruppo come i De La Soul, che perfino ai festival jazz si presentano orgogliosamente con il loro dj e basta. Ci sono poi vari gradienti di expertise: è normale che un giovane trapper partito dalla cameretta ed esploso immediatamente su Spotify, senza avere il tempo materiale per fare una vera gavetta, possa risultare deludente alle prime esperienze sul palco. Dargli il tempo di crescere e migliorare prima di giudicare potrebbe essere un’idea saggia: se nei suoi primissimi live Rkomi non regalava grandi soddisfazioni, ad esempio, l’inverno scorso ha lasciato a bocca aperta i presenti al Teatro Carcano di Milano durante le registrazioni dello speciale MTV Unplugged a lui dedicato, dimostrando grande sicurezza e disinvoltura e dando prova di essere nel suo elemento.
Ovviamente, ci sono anche quelli che non migliorano mai: vi sfidiamo a dare un’occhiata ai video che girano sui live di Playboi Carti, tanto per citarne uno, e se avete l’età per essere stati a qualche concerto di MF Doom sapete che spesso si presentava in scena scazzatissimo, o addirittura mandava suo cugino al posto suo, visto che tanto si esibiva mascherato. Il fatto è che, come in qualsiasi altro genere musicale, anche nell’hip hop ci sono degli artisti che dal vivo sono dei mostri e altri che sono dei cani. E, udite udite, anche nell’hip hop ciò che funziona dal vivo non sempre funziona su disco, e viceversa. Notoriamente Nas è uno dei più grandi rapper della storia, ma live risulta spesso freddo e ingessato; nel complesso Snoop Dogg è molto meno rilevante artisticamente, ma in compenso è in grado di tirare in mezzo pure i sassi, quando è al microfono davanti a un pubblico.
Altro distinguo indispensabile: non conta solo cosa si usa, ma come lo si usa. Per anni Gué ha suonato accompagnato unicamente da un “semplice” dj. Peccato che quel dj sia Jay-K, tre volte vincitore del DMC e due volte dell’ITF, ovvero due dei maggiori campionati per turntablist da competizione: per cinque volte è arrivato alle finali mondiali, accanto ai migliori colleghi del pianeta. Damianito, il già citato dj di Salmo, nel 2018 i campionati mondiali li ha addirittura vinti: nel suo caso si trattava del Red Bull 3 Style, un altro dei più blasonati contest di settore. Nel loro ambito, Jay-K e Damianito sono l’equivalente di un pianista classico che vince il concorso internazionale Fryderyk Chopin di Varsavia. E non cadete nell’errore di credere che vincere il DMC sia più facile che vincere il premio Chopin: chi partecipa si allena almeno otto ore al giorno per anni, prima di raggiungere un livello minimamente competitivo.
Così come il giradischi non sempre è semplicemente un giradischi, si può dire lo stesso per tutti gli altri device elettronici utilizzati da quelli che una volta venivano chiamati semplicemente disc jockey, termine ormai riduttivo. Un MPC in teoria è solo un controller, usato come campionatore, sequencer o loop station: schiacci un tasto e parte un suono preregistrato, se vogliamo metterla in termini banali. Ma nelle mani di uno come araabMUZIK, un virtuoso dello strumento, si trasforma in una specie di astronave aliena dotata di superpoteri. Andate su YouTube a guardare uno dei suoi video, o meglio ancora a uno dei suoi live set, se non ci credete. Difficilmente riuscirete a sostenere che non sta suonando davvero.
Quanto all’Auto-Tune, la grande pietra dello scandalo della musica rap di oggi (e non solo, già nel 2009 Jay-Z ne auspicava il crollo nell’immortale hit Death of Auto-Tune): nessuno di coloro che lo usa pretende o finge di saper cantare. Anzi, la sua presenza è talmente evidente e percettibile che millantare capacità vocali inesistenti sarebbe controproducente. Rassegnatevi: vi piaccia o non vi piaccia, c’è gente che per creare e riprodurre le sue melodie ama utilizzare questa particolare distorsione. È uno sport diverso, non potete giudicarlo con gli stessi parametri con cui valutereste le capacità di un tenore lirico, e neppure con quelli di un rapper classico. Soprattutto, occhio alle sfumature: non confondiamo gli esperimenti pasticciati di un trapper quindicenne con i quindici ingegneri del suono che lo hanno calibrato per brani come Lost in the World di Kanye West. In questo caso non solo si gioca uno sport diverso, ma si gioca proprio un altro campionato.
Attenzione, però: le scorciatoie sono un discorso a parte. Esistono tantissimi dj che si limitano solo a schiacciare un tasto e far partire una base, o addirittura a prestare nome e immagine alla propria musica senza però metterci l’operatività (vedi alla voce dj Khaled). Lato rapper, anche se potrebbe sembrare il contrario, il playback sicuramente non è ammissibile neanche nell’hip hop (per quanto, come nel pop, i grandi show televisivi italiani ne abbiano sempre fatto abbondante uso, dal Festivalbar al Love MI). Così come non ci si fa una grande figura a “fare le doppie”, come si dice in gergo, alla propria traccia pre-registrata, ovvero a rappare su un pezzo completo di voci principali e secondarie, anziché su un semplice beat. Una tendenza che va per la maggiore tra le nuove generazioni di trapper e post-trapper, e che genera accese discussione interne.
«È ovvio che dal live di rapper storici o già affermatissimi mi aspetto che rappino tutte le tracce alla perfezione, ma i giovani trapper, che ancora devono farsi conoscere, al momento non ne hanno la necessità. Anche perché all’inizio i fan vogliono solo cantare a squarciagola la traccia che già conoscono e vederti saltare o ballare», ci diceva DrefGold, che in fondo appartiene ancora alla seconda categoria, in un’intervista del 2020. Oltretutto è una tendenza che rischia di contagiare anche diversi cantanti italiani, che a furia di adeguarsi alle tendenze urban-pop del momento si adeguano anche a questa. E non è una grande idea emulare i trapper, in tal senso.
Ecco, sulla questione playback e backing track bisognerebbe fare una riflessione profonda, perché un conto è trovare un proprio approccio alla musica dal vivo, un conto è snaturarla fino a non renderla più tale. I boomer dal commento facile che gridano allo scandalo ogniqualvolta un’esibizione live suona difforme da quelle dei Led Zeppelin, però, forse dovrebbero fare un rapido corso di aggiornamento ed evolversi almeno fino agli anni ’70 dei block party, se non ai giorni nostri.