È una canzone seminascosta nella discografia di Taylor Swift, una di quelle citate raramente e mai fatte in concerto. S’intitola Sweeter Than Fiction ed è inclusa nella colonna sonora di One Chance, il film con James Corden sulla vita di Paul Potts. È una canzonetta di poco conto, un testo esile e un synth pop in maggiore dal suono non particolarmente brillante, col senno di poi quasi l’anello di congiunzione tra il country-pop di Red dell’anno prima e il pop-e-basta di 1989 dell’anno dopo. Solo un pazzo poteva immaginare che quel pezzo inaugurava una delle collaborazioni più fruttifere della storia del pop. Leggendo i crediti s’apprendeva infatti che era stata scritta e prodotta da Swift con un certo Jack Antonoff.
Undici anni dopo, la collaborazione con Antonoff è al centro dell’attività discografica di Swift. La sua presenza nell’immaginario della cantante eccede persino il reale contributo ai dischi. È vero però che è l’unico produttore e co-autore col quale la popstar ha lavorato costantemente negli ultimi dieci anni sia negli album che nelle Taylor’s Version, centrando un successo dietro l’altro, superando un record dopo l’altro. E fa parte di una lunga tradizione di produttori che determinano con la loro sola presenza il suono di un disco, per lo meno quando lavora con Swift. La coppia è stabile, lei non fa che parlare bene di lui, lui non fa che parlare bene di lei. Ma ora, dopo aver ascoltato il recentissimo The Tortured Poets Department, vien da chiedersi se la collaborazione non abbia fatto il suo tempo, se i due non abbiano detto tutto quello che dovevano dire. Lo so che è un pensiero da matti giacché s’è capito dopo poche ore che TTPD è un successo clamoroso, una cosa mai vista prima. I numeri però non sono tutto e forse certi suoni e certe atmosfere non bastano più per valorizzare i testi della cantautrice più famosa al mondo, per rendere le sue canzoni eccitanti, interessanti, imprevedibili. Per citare fuori contesto un passaggio di My Boy Only Breaks His Favourite Toys, “so che mi sto ripetendo”. Ecco, così.
È stato facile tifare per la coppia sin dal principio. Lei 25enne ex reginetta del country convertitasi al pop, cresciuta in una famiglia benestante grazie al padre ex broker di Merril Lynch, mandata in una scuola montessoriana, era stramba al punto giusto, bianca e impacciatella. Ha imparato a non farne mistero, ma anzi a giocarci su, vedi il video di Shake It Off. Metteva in scena la rivincita di una tipologia d’artista pop che era diventata uncool e al tempo stesso si prendeva in giro per questo. Lui 30enne di famiglia medio borghese era ancor più strambo di lei, studi alla Jewish Solomon Schechter Day School, occhiali con una montatura spessa così, esibizionista di nerditudine con un dolore famigliare che gli pesava, la morte della sorellina a soli 13 anni per un tumore al cervello. Era stato membro dei Fun e coltivava un progetto tutto suo chiamato Bleachers con l’idea di colmare il gap tra i Disclosure e gli Arcade Fire, parole sue. Lui è del New Jersey (l’influenza del local hero Springsteen verrà fuori col tempo) e ha tratto il meglio dall’esserci cresciuto, nel senso della voglia di fuga e riscatto, restando però culturalmente lontano dalla New York strafighissima degli Strokes che vedeva da lontano, letteralmente. Lei il Jersey lo frequentava d’estate, nella casa di famiglia a Stone Harbor, e non guardava in direzione Manhattan, ma Nashville.
Una delle primissime canzoni scritte da Swift s’intitolava The Outsider e forse quella parola definiva più il futuro amico che lei stessa, anche se la ragazza un po’ underdog si sentiva. In una foto scattata molti anni dopo ai Grammy 2023 i due alzano il bicchiere in un brindisi: lei ha orecchini di Lorraine Schwartz valutati attorno ai tre milioni di dollari, lui una spilla della campagna elettorale di Robert Kennedy del ’64, lei sembra una che sa come trarre il massimo dalle occasioni mondane, lui ha la faccia di uno che potrebbe tagliare la corda da un momento all’altro. Chiaro che da una coppia del genere non poteva non venir fuori qualcosa di peculiare.
S’erano incontrati agli MTV EMA del 2012 e in varie altre occasioni, a quanto pare accomunati dall’amore per Only You degli Yazoo (Antonoff collaborerà poi con Vince Clarke), quando lui stava ancora con Lena Dunham (ora è sposato con Margaret Qualley, pare che da teenager sia uscito con Scarlett Johansson, ragazzo fortunato). Ha trovato in Swift una musicista uguale e diversa da lui. Qualche anno fa ha detto che collaborare con altri artisti è come stare su Marte e cercare qualcuno che venga dalla Terra. «Poi incontri Lorde o Taylor, inizi a parlare di musica e capisci che sono come te», e cioè terrestri capitati sul pianeta rosso delle celebrità. Con Swift ha un rapporto speciale, è l’artista che l’ha legittimato come produttore.
Dopo Sweeter Than Fiction è arrivato 1989, l’album col quale Taylor Swift ha chiuso bruscamente col country ed è diventata una cantante pop d’immenso successo anche fuori dagli Stati Uniti. Antonoff c’era, ma non nelle canzoni che distinguono l’album, che sono per la maggior parte dagli svedesi Max Martin e Shellback. Quelle scritte con Antonoff erano I Wish You Would e soprattutto Out of the Woods, che è una canzone di rottura nel repertorio della popstar. I riferimenti agli anni ’80 servono non per evocare una qualche forma di vitalità post adolescenziale, ma per creare un’atmosfera ansiogena ed evocare pensieri «che sembrano venire fuori dalla testa». C’erano un Yamaha DX7 e nel ritornello un Minimoog Voyager, ovvero una tastiera digitale di quarant’anni fa e la riproduzione anni Duemila d’un classico anni ’70, e questo dice molto dello stile di Antonoff. Dice molto anche la bonus track di 1989 titolata You Are in Love e ispirata alla relazione di Antonoff con Dunham, raccontata attraverso le parole di lei. Ascoltate la musica: sembra venire dal periodo in cui Springsteen s’era incapricciato dei sintetizzatori e non si era ancor rimesso assieme alla E Street Band.
I pensieri che sembrano venire non da dentro la testa, ma da fuori, rimbombano anche in Look What You Made Me Do, forse la canzone più nota di Reputation tra quelle scritte e prodotte con Antonoff e registrate con la sua collaboratrice Laura Sisk, presenza costante nella storia di Taylor & Jack. In un album diviso in due quasi nettamente, l’uomo del Jersey si prende la seconda parte con sintetizzatori modulari, citazioni rétro (I’m Too Sexy dei Right Said Fred), archi riprodotti col Yamaha DX7, il controller MPC, voci campionate. Le frequenze degli strumenti sintetizzati a volte sono così basse da far vibrare gli ampli, l’atmosfera è spesso claustrofobica. Non sono produzioni di un retromaniaco, ma di uno cresciuto sì col culto degli anni ’80, ma anche di Pro-Tools. Avevano qualcosa di liberatorio: Swift si lasciava alle spalle un mondo di musiche paludate e cercava una sua via al pop di massa. E l’ha trovata, eccome: la storia dell’intensificarsi del rapporto con Antonoff è anche la storia di un successo inarrestabile.
Finito il contratto con l’etichetta Big Machine passata nelle mani dell’arcinemico Scooter Braun, da Lover in poi Swift s’affida sempre meno ad autori, topliner e produttori esterni (che continuano beninteso a esserci) per allacciare una collaborazione ancora più stretta con Antonoff. Le canzoni più sexy ed esplosive del disco del 2019 sono come ci si aspetta affidate ad altri. Lui non lavora a I Forgot That You Existed, a Me! o a The Man, ma a The Archer col suo Yamaha DX7, il Juno 6 e la LinnDrum, che è la vecchia drum machine resa famosa tra gli altri da Peter Gabriel. C’è anche in Cruel Summer, che ha vissuto un incredibile revival di recente, ma il suo tocco emerge di più nel pop-rock compresso di Paper Rings, pensata come la canzone d’amore che si sarebbe sentita nel 1978 a un matrimonio, o in certi passaggi che sembrano R&B suonato sott’acqua.
Ogni tanto viene fuori una foto scattata durante qualcuna di queste session e delle successive: sembrano pomeriggi fra amichetti che se la spassano. È la specialità di Antonoff: fare dischi non come usa nel pop, in cui viene coinvolta a distanza una mezza dozzina di autori e produttori, ma continuare a lavorare come quando non aveva soldi e doveva fare tutto da solo nel suo studio casalingo. Per dire, tolto il violino di Bobby Hawk (vi siete accorti che c’è?), lui è la one-man band di Anti-Hero, che ha scritto e prodotto con Swift. Suona dieci strumenti in quel pezzo, tra cui gli amati Prophet 5 e Juno 6, quest’ultimo il synth chiave anche di 1989, amato perché secondo Antonoff è in grado di esprimere tristezza e splendore nello stesso momento. È una dicotomia chiave delle sue produzioni, assieme al dialogo incessante tra i richiami alla grandiosità e quelli al raccoglimento. È il suono di uno stadio ricreato in uno studio casalingo, è quindi l’eco del suono di una band anni ’80 in uno stadio.
L’altra caratteristica di Antonoff parrebbe la capacità di creare un’atmosfera di complicità e famigliarità, quella che emerge da Folklore ed Evermore, i due album successivi ai quali ha lavorato come co-autore e co-produttore, anche se in misura minore rispetto ad Aaron Dessner dei National, moderando con suoni più tradizionalmente folk le tipiche atmosfere dream pop. Il suo tocco emerge molto più nettamente in Midnights del 2022, quasi un disco in coppia con Swift. Il concept si presta benissimo al trattamento di Antonoff fatto di riverberi, suoni sintetizzati e vibranti di basso, synth modulari, Juno 6, Wurlitzer, Moog, programmazioni mischiate a percussioni e strumenti a corda elettrici e acustici. La presenza di Antonoff e dei suoi strumenti non è mai stata altrettanto totalizzante nella musica di Swift. Scrive, produce, suona: la relazione fra i due si fa ancora più stretta, il successo persino maggiore. Dietro alla popstar numero uno al mondo c’è questo tizio che la difende strenuamente. Guai a criticarla, è come mettere in dubbio l’esistenza di Dio ha detto al Los Angeles Times. È l’atteggiamento protettivo di un fratello maggiore. S’arrabbia quando una giornalista durante un’intervista sull’album (molto bello) del 2024 Bleachers gli chiede di TTPD. S’arrabbia e riattacca.
Secondo Pink, Antonoff ha la capacità rara di farti sentire sua amica da sempre. Pure St. Vincent ha detto qualcosa di simile del produttore che ha lavorato a canzoni e album di Lana Del Rey, Lorde, Sia, Clairo, Florence + The Machine, Chicks, Carly Rae Jepsen. Lontano dal machismo di certi rocker della vecchia guardia, immerso nel nuovo modo di far musica con tastiere e computer, Antonoff ha contributo al processo di femminilizzazione del pop contemporaneo simboleggiato proprio da Swift, creando un ponte tra il pop da cameretta e da stadio, l’indie e il mainstream, dissolvendo il primo nel secondo. Ha lavorato anche con artisti di sesso maschile, ma in una vecchia intervista concessa all’Independent ammetteva di prediligere le artiste dicendo che forse c’entra il fatto d’essere «cresciuto con delle sorelle e una madre fantastica» ed essersi sempre trovato a suo agio con «donne brillanti e potenti nella mia vita. È un tipo di sensibilità che fa venire fuori da dentro di me qualcosa che funziona».
Per qualche ragione, col passare degli anni questo tipo di sensibilità l’ha portato a mettere a punto con Swift una versione ancora più ombrosa e cantautorale del synth pop e della new wave anni ’80, con piani sovrapposti di sintetizzatori, colpi di batteria che balzano fuori dalle casse, un’atmosfera rétro senza esserlo davvero. È un musicista versatile, l’ultimo dei Bleachers è a tratti bello vivace, le sue produzioni sono varie, ma si direbbe che quando lavora con Swift finisce per depurare il sound di quarant’anni fa dai suoi aspetti più spettacolari, che alla lunga è il difetto di Midnights e di The Tortured Poets Department.
C’è oramai qualcosa di tiepido e blando in questo suono electro-pop, ma minimalista, che è un po’ sogno e un po’ incubo, forse limbo. Un suono diciamo così casalingo e a tratti cheap, purtroppo monotono, ma adatto eccome all’ascolto in streaming, dal telefono. Era la finestra su un mondo diverso, oggi sembra un gesto isolazionista. Alcuni fan hanno cominciato ad ammetterlo dicendo che sì, The Tortured Poets Department non è musicalmente il massimo, ma quel che conta sono le storie raccontate. In parte è vero: lo metti in sottofondo e senti un disco fiacco e piatto, lo ascolti in cuffia con i testi sotto mano e ti fa un’altra impressione. E però la produzione senza grandi picchi, il songwriting spesso uguale a sé stesso, la ripetitività di melodie e cadenze, le atmosfere intorpidite, il minimalismo ottundente, i suoni già sentiti nei dischi precedenti suggeriscono che forse questa formula ha detto tutto quel che doveva dire. C’è bisogno di una nuova estetica, è venuto il momento di cambiare registro, si sente la necessità di una scossa come quando a Red seguì 1989.
Cinque anni fa Jack Antonoff ha detto che, per via della tendenza a mettere un po’ di New Jersey in tutto quel che fa, un giorno sarebbe riuscito a «fare dischi di Taylor Swift che suonano come Tunnel of Love» di Bruce Springsteen. Quel giorno è arrivato: con un po’ di fantasia, il primo volume di The Tortured Poets Department, quello dove le sue produzioni predominano su quelle di Dessner, è Taylor Swift in versione Tunnel of Love, che per una strana coincidenza è anche un disco su rapporti in crisi. Sentite per esempio come suona la batteria nella title track: è puro 1987. Oggi non ricordiamo quel disco tra le cose migliori di Springsteen, domani non ricorderemo The Tortured Poets Department fra i lavori più riusciti di Taylor Swift.
Agli MTV VMA dell’anno scorso, lei s’è detta fortunata di aver fatto musica con lui «da 1989 e continueremo a farla fino al 2089». Lui ha detto al Guardian che dorme serenamente nonostante le critiche. I numeri danno ragione alla coppia, ma l’impressione è che i due tizi della foto, quella con gli orecchini da tre milioni e quello con la spilla di Bobby Kennedy, non hanno più niente da provare e forse nemmeno da inventare, non almeno con questa formula. È stato bello vedere crescere il loro suono, che è diventato uno standard peculiare per la cantante e di conseguenza per il pop. Potrebbe essere giunto il momento di uscire da quel rifugio accogliente fatto di sintetizzatori e riverberi e foto sorridenti e farsi maltrattare da un produttore creativo e spietato, un bastardo che faccia anche da editor e abbia la statura per dire alla popstar numero uno al mondo: senti, cose come Fresh Out of the Slammer le lasci fuori dal disco perché sono la copia sbiadita di altre tue dieci canzoni.