Scrissi questa lettera (forse a me stesso) la mattina del 12 settembre, seduto al tavolino di un bar in Sardegna, mentre sostavo tra le ultime date del mio tour estivo. Sentivo il bisogno di raccontare a me e alle persone a me care che avevo assistito a qualcosa di unico e realmente importante, qualcosa che mi aveva ricordato del potere spirituale della musica.
Il mio sesto senso aveva viaggiato forse un pochino nel tempo e già sapeva che quello che stavo descrivendo sarebbe stato l’ultimo concerto di Pharoah Sanders. Ora che è passato allo stadio successivo di questo viaggio terreno, ci tengo ad omaggiarne il ricordo con queste parole di un musicista innamorato.
Grazie Maestro.
The creator has a masterplan
Mi sento pestare i piedi e faccio giusto in tempo con la coda dell’occhio a inquadrare in fuga due bambini che, come topini, si inseguono minuscoli tra le ginocchia della folla.
Pochi minuti fa una voce al microfono ha annunciato che Pharoah Sanders è finalmente arrivato e a breve sarà sul palco; questo dopo un’ora seduti su un prato spelacchiato ad attenderlo, e per i prossimi venti minuti non sarebbe poi comunque arrivato.
Questa lunga attesa permette a tutto il pubblico del festival di radunarsi di fronte al palco centrale, come un’Isle of Wight ai tempi di Call it anything.
Ammetto che in quell’ora e mezza di attesa ho pensato di tutto, anche al peggio, ma poi quando ho visto i membri della band salire sul palco mi sono tranquillizzato. Una figura misteriosa da subito mi ha incuriosito: già lo avevo visto sbucare a fare video da dietro al palco durante i live precedenti e ora era sul palco, slanciato, reggendo due sassofoni. Fino alla fine del concerto ho pensato che fosse un allievo di Pharoah – e questa cosa un po’ “yogica” mi ha molto affascinato –, ma poi ho scoperto che si trattava di suo figlio.
Pianoforte, contrabbasso e batteria cominciano a vibrare invocando una primavera spiritual indefinita, sul palco si comincia a sentire il vento di attesa.
Il suo ‘allievo’ comincia a danzare in modo simpatico creando una strana magica tensione, quasi uno scherzo mistico.
Poco dopo, scortato da due assistenti, viene introdotto sul palco Pharoah su una sedia a rotelle, come un vecchio imperatore ormai scarico. Ha gli occhi semichiusi e la sua energia vitale è ridotta al minimo: il suo “allievo” lo accudisce e festeggia il suo arrivo, per poi aiutare i due assistenti a spostare la massa critica dalla sedia a rotelle a un piccolo seggiolino di pelle con una manovra lenta e decisa. Sembra che, oltre al peso di un vecchio signore debole, stiano spostando il peso di un pezzo di storia della musica.
La fluida suite continua a profumare il palco e uno degli assistenti sostiene da dietro Pharoah, per assicurarsi che non cada dal suo umile trono.
Tomoki (il figlio allievo) arma suo padre del suo scettro di ottone, che viene maneggiato ora da Pharoah con una lentezza primordiale e impiega alcuni minuti per avvicinarlo alla bocca.
Il pubblico nel frattempo sta seguendo questa strana danza in religioso silenzio e trepidazione.
Non sappiamo cosa aspettarci, dalla lentezza con cui sta succedendo tutto sembra impossibile che il vecchio possa emettere anche soltanto un sibilo dal suo strumento. E poi, a un tratto, i musicisti si guardano, scendono di dinamica come a creare un gradino per il loro signore, un dolce invito e si comincia a sentire farsi spazio tra i suoni un tenuissimo fischio baritonale.
Un brivido mi corre lungo la schiena, mentre nuovamente scorgo i due bambini sgattaiolare tra le mie gambe e quelle di tutti i miei vicini accanto.
Come la statua di un Buddha che prende vita, il maestro comincia a dispensare il suo spirito attraverso lo strumento. Sembra impossibile che riesca a soffiarci dentro e passarvici attraverso.
Una pioggia di lacrime travolge il pubblico in religiosa adorazione. Attesa e rivelazione. Flebile voce e fiato, sintesi di una vita, dedizione. Amore e pianto, benedizione. Mi volto perché a un metro da me una ragazza il cui volto è rigato da due flutti trasparenti sta ululando in adorazione, vedo persone pregare: una religione pagana di cui sto forse vedendo un santo fare dei miracoli.
Il primo brano, dopo quasi venti minuti, si addormenta in un silenzio facendo spazio alle ovazioni del pubblico che, fino a quel momento, era stato rispettosamente immobile.
La band si lancia allora in una danza freejazz molto spinta e Tomoki (nella mia testa impersonando il suo maestro) comincia a saltare e strillare dentro il suo sassofono. Pharoah accanto a lui annuisce appena e io apprezzo molto come accetti che qualcun altro faccia “lui” al posto suo.
Con le sue mani spigolose, lentamente indica ognuno dei musicisti per chiamare i loro soli e frequentemente chiama il figlio a sé per sussurrargli qualcosa nell’orecchio. Tutto con una lentezza disarmante.
La band ricava un momento di tranquillità anche in questo brano per lasciare spazio ai tiepidi voli del grande musicista e, sul finire di questo secondo momento, il pianista si sposta su quello che sarà l’ultimo (ma molto lungo) momento del concerto.
Dopo aver saltellato tra le note Come un acrobata sull’acqua, come direbbe Ungaretti, si infila sul binario storico di un brano che ha segnato la carriera di Pharoah Sanders: The Creator Has a Masterplan.
Il pubblico viene preso da un brivido collettivo ed esplode in un applauso innamorato.
I due bambini nel frattempo continuano a cucire invisibili ragnatele tra le persone accanto a me come se volessero a un tratto tenderci un agguato, ma continuano inevitabilmente a strapparmi un sorriso.
Sulle orme di questa musica in fondo semplice ma essenziale, Pharoah vola come un falco distendendo note lunghe, la sintesi di una vita. Ogni passaggio è pesato ed essenziale. A un certo punto, incastrandosi tra cavi, aste e sassofoni, facendosi aiutare dal figlio prende il microfono in mano e cerca di dire qualcosa; aspetta.. sta cantando! Tomoki si asciuga frettolosamente due lacrime che gli sono scappate come palloncini e si dirige verso il fonico chiedendo di alzare il volume del microfono (sempre con un fare dolce, educato e molto simpatico), alza il dito sempre di più verso l’alto, sembra quasi uno scherzo.
La band scende nuovamente di dinamica quasi a non sentirsi più, e tra i colpi di spazzola e le corde ruvide del contrabbasso comincia a comparire come dalle nuvole di tanto in tanto una voce minuscola.
La ragazza al mio fianco riprende a ululare ed è ormai totalmente bagnata di pianto.
Pharoah canta, parla, e ogni tanto con dei gesti quasi impercettibili cerca di muovere il pubblico in delle onde.
Quest’ultimo brano va avanti per almeno 25 minuti e nessuno sembra volerlo terminare. Il pubblico e la band sono ormai una cosa sola, Pharoah è per noi in quel momento una guida spirituale che stiamo aiutando a benedirci.
Tra un ragazzo inglese che viene portato via dalla folla svenuto e un uomo italiano che dopo avermi sfiorato con un accento simpatico mi dice «Sorry, mate», il concerto va verso la fine.
La band di super musicisti ormai trasformata in mantra sembra essersi dimenticata come portare a una fine un vamp, ma tra un applauso e una risata generale la musica infine si spegne.
Pharoah Sanders con un segno quasi papale ci benedice e la voce di Gilles Peterson lo ringrazia e svela finalmente chi era il misterioso “allievo”.
È ormai buio e la folla di fronte al palco centrale del We Out Here Festival comincia a smembrarsi disperdendosi in ogni direzione. Io non ho voglia di parlare, sono pensieroso, estasiato e commosso. Mi rendo conto di aver assistito a qualcosa di speciale che stava accadendo sul nostro pianeta.
Sono passate alcune settimane e il ricordo di quel concerto mi ha fatto compagnia attraverso molto viaggi e concerti miei e mi sono ritrovato a raccontarlo a molti amici.
Non so se è una mia deviazione, ma ogni volta che vado a un concerto mi chiedo se sarà il «più bello della mia vita» (forse perché, ogni volta che mi viene chiesto quale concerto ho preferito, immediatamente la mia mente si svuota e delle centinaia che ho visto non me ne ricordo neanche uno).
Per fortuna non so rispondere a questa domanda, ma sicuramente è un momento che non dimenticherò mai… forse per me, che sono un’anima antica, la possibilità di vedere ancora vivo un mio eroe della vecchia generazione, forse i pianti e ululati di quella ragazza accanto a me che hanno mosso qualcosa dentro di me fino a farmi piangere, forse l’amore di Tomoki che accompagna il padre nelle sue fatiche per amore della musica, o forse quei due bambini che si inseguono in una foresta di gambe mentre sopra le fronde di teste sta accadendo un miracolo.