La prima voce che esce dall’oscurità è quella di Doug Yule, l’amico di Boston che è entrato a fare parte dei Velvet Underground al posto di John Cale. Doug Yule è armonia, linee di basso melodiche, il suono di The Velvet Underground, terzo album dei Velvet Underground uscito nel marzo del 1969, è più vicino alle ballad folk che alla distorsione, ma le storie sono sempre quelle abrasive, decadenti e maledette di Lou Reed.
In Candy Says la voce di Doug Yule canta con inquietante dolcezza la storia di una delle “superstar” della Factory, il transessuale Candy Darling protagonista di due film di Warhol, musa dei Velvet Underground e simbolo della dolorosa ricerca della propria identità.
Anche se sono andati a registrare ai TTG Studios di Hollywood, lontano dalla Factory e da Andy Warhol, i Velvet ritornano sempre lì, nelle viscere della metropoli piena di umanità stravolta chiamata New York.
Quello che cambia è il suono della band che Rolling Stone aveva definito «L’antidoto in stivaletti neri ai figli dei fiori degli anni ‘60».
Lou Reed lo ha spiegato così: «Se diventi un’espressione artistica unidimensionale il pubblico finirà per evitarti. Dovevamo mostrare un altro lato di noi». Velvet Underground sta esattamente in mezzo alla diversità assoluta e al minimalismo straniante di Velvet Underground & Nico del 1967, al furore elettrico di White Light/White Heat e al tentativo di fare canzoni accessibili di Loaded del 1970, in un luogo in cui come ha scritto Lester Bangs riescono a convivere «Musica potentemente espressiva e testi intensamente sentimentali».
È folk claustrofobico, disilluso e dolente, carico di energia e atmosfera maligna, eppure in qualche modo consolatorio. Come tutti i dischi dei Velvet, ascoltato 50 anni dopo la sua uscita, contiene anche tante cose successe molto dopo: l’indie-folk, il lo-fi, il concetto stesso di post-rock. Come ha detto Brian Eno: «In pochi hanno comprato i dischi dei Velvet Underground, ma tutti quelli che lo hanno fatto hanno formato una band».
Tra le dieci tracce di The Velvet Underground ci sono quella che Lou Reed ha definito «La canzone più innocente e pura che abbia mai scritto» After Hours, cantata dalla batterista-icona Maureen Tucker (e rifatta da tre generazioni di rock band: REM, Red Hot Chili Peppers, Blind Melon, Pearl Jam, White Stripes, Babyshambles), l’intima Pale Blue Eyes dedicata ad una fidanzata della Syracuse University, ( “A volte mi sento così felice / Ma la maggior parte delle volte mi fai arrabbiare”) e la sublime e ipnotica chitarra ritmica
di What Goes On e The Story of My Life, ma il centro di tutto è Candy Says, quella canzone dolorosa e solenne che Lou Reed ha scritto ma non vuole cantare.
Candy Darling (che nel 1972 tornerà in una strofa di Walk on the Wild Side nel suo album solista definitivo, Transformer) è per lui una figura magnetica e pericolosa, una sottile ossessione che lo accompagna per tutta la vita. Candy muore nel 1974 a soli 29 anni, dopo aver recitato in altri sette film (anche con Sophia Loren in una commedia di Mario Monicelli, Lady Liberty e al fianco di Jane Fonda in Klute, per cui la Fonda vince un Oscar). Nella sua lettera di addio, indirizzata ad Andy Warhol e a tutti i suoi fan, Candy scrive: «Sapevate che non sarei durata a lungo. Io l’ho sempre saputo. Spero di rivedervi».
Per Lou Reed, ragazzo diverso cresciuto in una famiglia conservatrice del New Jersey che considerava l’omosessualità una malattia da curare con l’elettroshock, Candy Darling diventa un simbolo: «Qualcosa di profondo e universale, una sensazione che tutti hanno provato almeno una volta nella vita» come ha raccontato ad Anthony DeCurtis nella biografia Lou Reed, A Life, «Ti guardi allo specchio e non ti piace quello che vedi. Non conosco nessuno che non ci abbia mai pensato».
Lou Reed ha vissuto mille vite e si è trasformato più volte, da letterato disadattato, a rocker provocatore a intellettuale postmoderno, ma l’ultima volta che si è esibito in pubblico come ospite di Anthony & the Johnson a Parigi il 6 marzo 2013, pochi mesi prima di morire, lo ha fatto per cantare proprio quella canzone, Candy Says: “Guarderò gli uccellini che volano sopra le mie spalle / Voglio guardarli mentre mi passano sopra / Forse quando sarò più vecchia / Cosa credi che vedrei / Se potessi allontanarmi da me?”