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Un album informe di una band senza idee: la stroncatura d’epoca di ‘Unforgettable Fire’ degli U2

Quarant’anni fa usciva il quarto degli irlandesi. La sperimentazione però non era apprezzata da Kurt Loder, futuro volto di MTV News che scrive di «non-canzoni autoindulgenti». Un fuocherello dimenticabile?

Foto: Peter Carrette Archive/Getty Images via Rolling Stone US

Il titolo del quinto album degli U2 è suggestivo in modo perverso. Questa guitar band irlandese che si divide tra la voglia di scrivere grandi inni da stadi e una sincera preoccupazione per le questioni sociali è riuscita nei re precedenti album in studio (più un live) ad ascendere all’olimpo del rock. Sfortunatamente con The Unforgettable Fire, il fuoco gli U2 tremola e quasi si spegne a causa di una produzione mal concepita e da non-canzoni autoindulgenti. Non è un album brutto, ma nemmeno della bellezza inconfutabile che i fan della band si aspettavano. Cos’è successo?

All’inizio la decisione degli U2 di abbandonare le cure dei precedenti produttori pop Steve Lillywhite e Jimmy Iovine e di assumere invece lo sperimentatore Brian Eno e il suo attuale collaboratore, il canadese Daniel Lanois, sembrava non solo interessante, ma anche coerente col loro decantato idealismo. I quattro si sentivano artisticamente limitati dal guitar rock da classifica. Un produttore giusto, qualcuno cioè con serie credenziali artistiche, avrebbe capito la loro impasse e sarebbe stato in grado di aiutarli a crescere. Brian Eno sembrava quindi scommessa coraggiosa: prima l’arte, poi la classifica.

Ma l’idealismo non è un’arte. Come produttore – a differenza del ruolo che aveva con i Talking Heads – Eno è un prezioso organizzatore concettuale, uno stratega sonoro, un maestro delle atmosfere. Ma con il chitarrista Dave “The Edge” Evans che produce ondate di suoni post-psichedelici, gli U2 avevano già più atmosfera di quanta ne sapessero gestire. Eno, insomma, era un’aggiunta superflua.

Un problema più serio invece è rappresentato dalle carenze concettuali. Un po’ come il produttore tedesco Conny Plank, altro autore da studio tipo Phil Spector (preso in considerazione per il progetto), Eno è in grado di esprimere le proprie idee attraverso gli artisti che produce (o elabora). Ma non può fornire loro l’arte, a meno che non si tratti di scrivere canzoni. I canti in stile tribale, le percussioni etniche, i suoni elettronici lussureggianti messi a punto da Eno finiscono per svelare in modo sconcertante il vuoto creativo della band. È un album senza forma, questo.

In verità non è del tutto vero. Bono, qui, è sicuramente a suo agio, e lo si capisce dalle tracce vocali messe in primo piano nel mix. Mancando materiale forte e ben definito, i produttori hanno cercato di creare una tensione dinamica nei brani concentrandosi su certi elementi musicali: il timbro del basso di Adam Clayton, le possibilità ipnotiche dei pattern di batteria di Larry Mullen, il sottile gonfiarsi sinfonico del sintetizzatore di Eno. La chitarra di Evans è sminuzzata in frammenti creativi, arricchisce il mix, ma priva la band del suo principale punto di forza. Tocca a Bono cercare di compensare la perdita. Ha una voce impressionante – in particolare in A Sort of Homecoming e Pride (In the Name of Love), i due brani di maggior successo – ed esibisce un nuovo equilibrio e controllo (principalmente nella title track quando il falsetto intona “stay tonight” mostra una vulnerabilità coinvolgente).

Sfortunatamente, però, i testi sono troppo spesso una marea di chiacchiere artistoidi, pure con le migliori intenzioni. Versi come “True colors fly in blue and black / Through silken sky and burning flak” (Bad) sembrano voler trasmettere un’immagine, una verità poetica, sulle devastazioni della guerra. Ma il tentativo di metafora è irrimediabilmente confuso: se il blu e il nero si riferiscono alla carne traumatizzata delle vittime della guerra, cosa ci fanno in volo nel cielo? Perché un cielo “di seta”? E nell’inutile titolo Elvis Presley & America, Bono si abbandona alla più antica delle pretese artistiche, l’improvvisazione con tanto di balbettio registrato in presa diretta che fa sembrare Patti Smith una cantante di una chiarezza assoluta.

Si vorrebbe poter elogiare brani fatti con le migliori intenzioni come Pride (In the Name of Love), ispirato a Martin Luther King, e MLK, con le iniziali di King nel titolo. Ma Pride si fa apprezzare solo per la forza del ritmo (un marchio di fabbrica degli U2) e per la grande linea di basso, non per la nobiltà del testo, che non è degno di nota. E MLK consiste in una sola strofa, cantata due volte, che inizia con “Sleep, sleep tonight / And may your dreams be realized” (dormi, dormi stanotte, che i tuoi sogni possano realizzarsi). Un sentimento ammirevole, certo, ma a cui Bono non apporta alcuna illuminazione artistica.

The Unforgettable Fire
sembra girare intorno a un’infinità di graffi di chitarra, di elaborazioni sonore all’avanguardia e di immagini liriche banalissime (a quanto pare il filo spinato è un concetto centrale). La forza primordiale degli U2 si manifesta solo qua e là. Quando lo fa, però, si può perdonare ogni incertezza (ci sono effettivamente alcuni brani memorabili) e sperare che la prossima volta non dimentichino dove si trova davvero il loro fuoco.

Da Rolling Stone US.

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