Influencer che ballano simulando cinque cellulari (nella tuta gold), anziani che ballano in circoli per la terza età sfidando leggi della fisica e tenuta del menisco, sedicenti chef che spadellano e tritano a tempo – loro non ballano, bisogna stare attenti ai coltelli. Il brano presentato a Sanremo 2024 da Mahmood è una hit virale, l’onnipotente giuria social ha decretato, la decisione è inappellabile. Coreografie di ogni genere e livello hanno proliferato, invadendo l’ecosistema digitale e colonizzando qualsiasi piattaforma, compreso TikTok.
O meglio, l’inondazione di stacchetti ha investito anche TikTok, ma a fermare i futuri Nureyev e Fracci (in tuta gold) dovrebbe esserci un divieto invalicabile, la trincea che da qualche settimana separa il social media cinese da Universal. Ma così non è: versioni live, velocizzate, re-pitchate, modificate con trucchi di ogni sorta per ingannare il veto e continuare a produrre contenuti. Esserci sempre e comunque, recita il mantra del creator, “fottitene e balla”, cantava Dargen qualche anno prima di trasformarsi nell’innominabile di viale Mazzini.
Tuta gold, infatti, non dovrebbe essere riproducibile su TikTok, dato che il gruppo Universal Music – etichetta di Mahmood – ha rimosso tutto il suo catalogo dal social. Da qualche settimana i due titani sono in guerra aperta e la questione è la solita, il digitale paga pochissimo. Assodato il guadagno risicato che arriva dallo streaming, allo stato attuale TikTok figura circa l’1% nel bilancio annuo della discografica – come dichiarato da Universal nella lettera aperta pubblicata a fine gennaio.
«TikTok vorrebbe riconoscere ai nostri artisti e autori un compenso infinitesimale», si legge nel comunicato diffuso da UMG dopo aver rifiutato le cifre a ribasso proposte da ByteDance per il rinnovo dei contratti di licenza. «TikTok sta cercando di costruire un impero basato sulla musica, senza però riconoscerne il giusto valore», continua la lettera, «vuole usare il suo potere per convincerci ad accettare un pessimo accordo, che non tiene conto del valore della musica e che è una truffa per tutti».
«È triste e deludente che Universal abbia anteposto la propria avidità agli interessi dei propri artisti e autori», rispondeva TikTok, avvertendo la label a non «abbandonare il supporto di una piattaforma con oltre un miliardo di utenti che funge da veicolo promozionale gratuito per i suoi talenti».
Riassumendo, da una parte il colosso detentore del catalogo musicale più imponente al mondo chiede pagamenti più alti per i contenuti di sua proprietà; dall’altra il social che in cambio di quei contenuti offre dosi di viralità astronomiche, ossigeno per un’industria in apnea. Fenomeni locali, come i Måneskin, incoronati sui palchi di tutto il mondo; star internazionali, vedi Taylor Swift, a sbriciolare qualsiasi record trainati dalle condivisioni. Non contando i brani nati dalle challenge e diventati tormentoni globali proprio grazie a TikTok – ricordate il caso Old Town Road? Quello dei “canti marinareschi”? Certamente TikTok ha contribuito a lanciare singoli e carriere con i suoi numeri stellari, ma la visibilità non è ancora riconosciuta come valuta. O almeno, non ancora.
Lo stallo tra le due corporate, a ben vedere, potrebbe addirittura oltrepassare il ring giudiziario. La musica è un contenuto e, come tale, ha bisogno di una forma con cui presentarsi al pubblico della propria epoca. Oggi Monet dipingerebbe le Ninfee con gli stessi dettagli e dimensioni, ma compresse nei pixel di Instagram? Probabilmente no. Allo stesso modo molta della musica leggera si è adeguata alla (piatta)forma con cui raggiungere la fetta più grossa del pubblico. Oggi il successo (o la sopravvivenza) passano da stacchetti di 30 secondi? Così sia.
Si cerca la hit, la coreografia, la perfetta move per TikTok, scrivevamo poco dopo aver ascoltato in anteprima i brani del Festival. Il singolo da classifica ha una sua formula, l’ha sempre avuta: in passato era la trinità “sole-cuore-amore”, oggi ritornelli coreografabili.
“Musica sintetica”, “cheap”, “fatta apposta per la piattaforme” ha rincarato James Blake in alcuni tweet pubblicati nel weekend. Per resistere nel mercato odierno, ha scritto il musicista inglese, gli artisti sono costretti a diventare influencer, rinunciando alla qualità del proprio lavoro e a retribuzioni eque, obbligati dal mercato a fare numeri per i social. Che vendano pandori, potremmo tradurre.
Certamente, non tutti sono d’accordo con Blake, a molti artisti va più che bene alternare singoli con le nuove sneakers belle esposte. D’altronde, se servono centinaia di migliaia di stream per pagare affitto e bollette, perché non far tornare i conti con qualche story? Non c’è nulla di male, purché fatte con #adv in bella vista, e non tutti possono contare sulla fanbase e i relativi tour sold out di Blake. Meglio differenziare il business e arrivare a fine mese.
Ma se il binomio musicista-influencer non fosse più possibile? Se il braccio di ferro tra UMG e TikTok rimanesse senza un vincitore? Il solo catalogo Universal, secondo alcune analisi riportate dal Guardian, rappresenterebbe l’80% della musica presente su TikTok, non proprio noccioline – secondo la piattaforma “solo” il 20-30%, la solita faida questura-organizzatori.
E, ancora, se le altre major decidessero di seguire l’esempio allontanandosi dal social cinese? La musica continuerebbe ad essere la stessa, con la stessa struttura prevedibile e riproducibile dalle AI come sostiene Blake? Per le risposte è ancora presto, e battaglie come questa potrebbero attaccare anche altri social, basta ricordare l’italianissimo scontro tra Meta e SIAE, mai del tutto sanato.
All’epoca molti artisti nostrani avevano scelto di schierarsi al fianco di Zuckerberg. E ora, cosa succederà? “Lo scopriremo solo vivendo”, direbbe Mogol, lo “sconfitto” del primo round. Ma la royal rumble tra pesi massimi è appena iniziata, vedremo chi avrà la meglio.