Come si fa a realizzare un documentario su uno che ha passato la vita a cercare di sparire? Non solo, su un musicista che non ha mai inciso un disco e non ha mai trascritto le proprie composizioni su carta, figuriamoci in digitale?
Eppure, con Il mondo è troppo per me, la regista Vania Cauzillo è riuscita nell’impresa. Ma forse, dopo averlo visto in anteprima, possiamo dire che la storia di Vittorio Camardese era troppo grande per rimanere nascosta, nonostante i suoi continui auto-sabotaggi. Stiamo parlando del chitarrista che alcuni considerano l’inventore del tapping, anche se non fu il primo a utilizzare questa tecnica e già Jimmie Webster negli anni ’50 ne trascrisse il metodo in un libro. Il radiologo potentino fece di questa tecnica una cifra stilistica che dagli anni ‘60 in poi l’ha consacrato, anche se non al grande pubblico, come un punto di riferimento imprescindibile.
Non è solo questa, però, la caratteristica che renderà Camardese un caso più unico che raro, quanto semmai la sua idiosincrasia verso le luci della ribalta e qualsiasi manifestazione di protagonismo rispetto alla passione che trovava sfogo soltanto grazie alla chitarra. Troppo educato ed elegante, figlio di una cultura degli anni ’30 che esigeva un certo distacco tra il lavoro, quello “vero” e sicuro, e il mondo della arti considerato una velleità sulla quale non basare l’intera esistenza. Fatto sta, che non ottenne mai il successo che avrebbe meritato.
Lo confermano le testimonianze che scorrono nel docufilm, che verrà proiettato durante il Seeyousound Festival di Torino il 27 e il 28 febbraio con un’esibizione di Roberto Angelini e Rodrigo D’Erasmo, alternate dai pochi (ma significativi) video dell’epoca recuperati e dalle illustrazioni di Elisa Lipizzi.
In un’ora di pellicola si ritrova la Roma tra i ‘50 e i ‘60 dove era possibile ascoltare dal vivo grandi artisti «in un solo mese e poi uno si poteva sparare», come dice un altro grande jazzista come Marcello Rosa. È in quell’ambiente di fermento artistico che Camardese si mette in mostra ed entra in contatto, distinguendosi, con i migliori musicisti dell’epoca. A rendere l’idea del rapporto che intercorreva tra loro, viene in aiuto il racconto di Renzo Arbore quando spiega che il chitarrista ospitò a casa sua Chet Baker, nonostante nessuno dei due spiccicasse una parola in una lingua comune. «”E di cosa parlate?”, gli chiesi. E lui: “Io non so l’inglese, lui non sa l’italiano. Prendo la chitarra e lui mi viene appresso”». Rimarranno amici per tutta la vita, come confermano le lettere nelle quali il trombettista si rivolgerà a Camardese «con amore» invitandolo a «suonare sempre» perché «hai un sacco di talento».
A quanto pare, Camardese non sviluppò la tecnica del tapping dopo averla conosciuta dagli americani, ma dai barbieri di Potenza. È lì, infatti, non trovando qualcuno che gli insegnasse a suonare la chitarra, trovò invece chi gli diede i primi rudimenti della zampogna da applicare alla sei corde, come ha ipotizzato il cantautore Antonio Infantino: «Usava lo stesso principio, a sinistra i bassi e a destra gli alti». Quando arrivò per la prima volta in tv sembrò a tutti di ascoltare un extraterrestre: «È una cosa da matti, non si suona così» si lasciò andare qualcuno esterrefatto tra il pubblico.
In Il mondo è troppo per me scorre, poi, non solo la carriera di musicista di Camardese, tra brillanti concerti, belle donne (e diverse amanti), scorribande in Porsche color senape e consensi pressoché unanimi, ma anche il mestiere di radiologo, portato avanti «con grande serietà», così come la parte più privata e sofferta della sua vita. Particolarmente toccante, in questo senso, la testimonianza di Roberto Angelini, suo figlio acquisito, quando ripercorre il rapporto con quel padre che lo accompagnò allo studio della chitarra «con delicatezza», senza mai giudicarne i suoi gusti anche se lontanissimi dai propri, ma che nello stesso tempo faticava a gestire il «dark side» che lo portava a scatti d’ira e ad innescare tensioni familiari che sembrano averlo segnato profondamente.
Nonostante questo, da artista ad artista, si deve proprio ad Angelini la riscoperta a livello internazionale di Camaredese quando, nel 2013 (a tre anni dalla scomparsa), carica su YouTube un suo video in bianco e nero dove suona durante il programma Chitarra amore mio del 1965: in pochi minuti diventerà virale, facendo il giro del mondo e arrivando sulle timeline dei più grandi musicisti, da Brian May dei Queen che lo definirà «magia» a Joe Satriani che ritwitterà il link augurando a tutti «buona visione», oltre a centinaia di migliaia di utenti.
Un riscatto postumo, non solo giusto ma doveroso, al quale si aggiunge questo docufilm che, in più, ha il pregio di restituirci uno squarcio su un periodo epico ed irripetibile della storia della musica italiana.