A Capodanno, costretto a casa per il Covid, ho deciso di dare un’occhiata ai video dei party di fine anno di MTV. Scorrendoli, mi sono fermato su quello del 1983 che vedeva come artista di punta una ragazza che all’epoca scombussolava le regole della discografia: sto parlando di Cyndi Lauper. Ecco, all’inizio osservavo distrattamente convinto di sapere a memoria ogni sua mossa. D’altronde Lauper era una popstar dal grande successo commerciale all’epoca e bene o male, subliminalmente o meno, è entrata nel nostro immaginario di teenager. La davo per scontata e invece sono rimasto sorpreso non solo dall’energia anarchica sul palco, dall’uso del suo corpo completamente spontaneo, all’apparenza quasi scomposto eppure armonico, ma soprattutto dalle sue corde vocali.
Se pensiamo alla Lauper come a quella che cantava (e parlava) con la voce da Minnie, ecco: il suo è solo uno stratagemma punk di cui si è parlato molto poco rispetto alle effettive doti. È praticamente impossibile cantare in quel modo, lei invece lo fa con una duttilità tale da mascherare la sua grande tecnica rendendo il suo canto accessibile a tutti (come se fosse un cartoon vivente) nonostante durante la performance raggiunga delle ottave pazzesche con un’emissione cristallina senza un minimo di cedimento. Se la ascolti pensi: anche io posso cantare così, e invece no, questo è il suo trucco.
Cyndi Lauper si è formata intonando Janis Joplin, il jazz, il blues verace. Ad inizi ’80 il suo primo gruppo, i Blue Angel, ebbero un certo successo con il singolo I’m Gonna Be Strong, inciso per la Polydor. Non riuscirono a sopravvivere solo perché erano in mezzo al guado new wave/post wave. Lauper ha una capacità vocale che al confronto la sua rivale Madonna era ed è una 500 contro una Ferrari. Non a caso, Madonna non è stata convocata nel progetto We Are the World, Lauper sì. Non era solo una questione di successo (all’epoca Madonna era appena esplosa, mentre Lauper aveva già aperto la strada al female power nel pop con la sua Girls Just Want to Have Fun), ma proprio di corde vocali. Nel documentario tiene testa a tutti, seppellendo anche un Bob Dylan in evidente difficoltà: ovviamente non mancando di un bizzarro siparietto à la Lauper, cioè quando il tintinnare dei braccialetti e delle collane – poste a tonnellate sul suo collo – rientra nel microfono disorientando i fonici.
È una donna e un’artista unica ed è proprio questo il profilo che emerge dalla visione di Let the Canary Sing, biografia in pellicola diretta da Alison Ellwood (già distintasi per un documentario sulle Go-Go’s) che il 23 febbraio aprirà la decima edizione del Seeyousound International Music Film Festival a Torino. Per la prima volta proiettato in Italia, il docufilm affronta la vita e le opere della Lauper da un punto di vista umano: non la star, ma una donna forte con le sue conquiste, le sue sconfitte, il suo attivismo e fondamentalmente il suo innato slancio alla libertà, che traspare già solo dal look fatto di capelli viola e unghie di colore diverso una dall’altra, in uno stile incredibile che tiene conto della sua età – non è ovviamente più una ragazzina – ma che non reprime il suo animo perennemente giovane ed eccentrico puntato su un futuro sempre dietro l’angolo.
Perché di base nel documentario è sottolineato proprio il grande eterno stile intuitivo della cantante. Il suo interesse per la moda come incarnazione dell’arte (praticamente un decoupage direttamente sul suo corpo), la capacità di mettere in piedi un immaginario potentissimo con semplici stracci e con collane della nonna (checché se ne dica, Madonna viene dopo avvantaggiata dalle intuizioni geniali della Lauper), l’espressione artistica a tutto tondo per cui anche la copertina apparentemente squassata di She’s So Unusual nasce da un approfondito studio della pittura latinoamericana (non a caso vincerà un Grammy), la sua bellezza atipica, schizzata, quasi una lolita che a una sensualità facilona sostituisce quella della mente, un po’ come succedeva a Monica Vitti.
È il ribaltamento della concezione della donna nel music business. Era già stata scossa dal punk e dalle sue beniamine, ma è vero anche che nel pop mainstream l’idea della cantante pin-up è a quei tempi ancora dura a morire. Il simbolo concreto di questo ribaltamento è proprio la grande hit Girls Just Want to Have Fun scritta dal power popper Robert Hazard nel 1979 con un significato opposto: il brano parlava infatti dei ragazzi che guardano ragazze facili. Il produttore di Cyndi è convinto che potrebbe farne una hit, lei non ci pensa minimamente per il concetto machista. Poi però, appunto, prende il brano e lo trasforma in un inno femminista, riscrivendo parti del testo e rendendo quel fun non una stronzata edonista, ma un manifesto di liberazione dalle catene della società (patriarcale o meno, parliamo di quella capitalista, che ovviamente non fa sconti alle sue figlie), con un arrangiamento certosino che si ispira alle canzoni delle giostre e che riprende quell’impeto punk stile Oh Bondage Up Yours! di Poly Styrene (il cantato della Lauper sembrerebbe, per potenza chiassosa, un vero e proprio tributo alla cantante degli X-Ray Spex).
Nel video, ideato dalla Lauper stessa, riesce a tenere testa a un padre che nella realtà è il manager di wrestler Lou Albano, cosa che la porterà anche a fare delle incursioni (con sapienti messinscena in cui sfida il finto padre sessista con tanto di risse) nella World Wrestling Federation, facendo da madrina a wrestler femminili di professione, cosa che gli permetterà di lanciare il suo singolo in tutti gli Stati Uniti e di essere assoluta pioniera della commistione del rock con il wrestling che poi diverrà quasi prassi.
Insomma, Cyndi Lauper non è solo una cantante e brillante interprete di cover impensabili (ricordiamo anche Money Changes Everything, brano dei misconosciuti e grandissimi newwavers Brains, che da amara riflessione nelle mani di Cyndi diventa manifesto volitivo), ma artista a tutto tondo. Come autrice sforna un brano epocale, Time After Time, e per capirne l’importanza basta citare la cover di Miles Davis in You’re Under Arrest, che la svela come un vero e proprio new standard jazz. Così come True Colors del 1986, che pur non raggiungendo i picchi commerciali dei precedenti brani è un inno struggente e intimo alla causa LGBT e soprattutto un canto d’amore per le vittime di AIDS (anni luce prima di una Lady Gaga).
Nel documentario ovviamente è sottolineato anche come la Lauper sia stata sempre in prima linea per le istanze della comunità gay. A questo proposito Let the Canary Sing prende il nome da una frase del giudice che dà ragione a Lauper nella causa contro il suo ex manager dopo lo scioglimento dei Blue Angel, ed è in un certo senso un simbolo di affrancamento dalle oppressioni: il film infatti narra in modo cospicuo dell’infanzia difficile della cantante nella periferia newyorkese, nata da origini italiane (per la precisione sicule), con una madre frustrata e un patrigno violento che la porteranno a fuggire di casa per vivere dalla sorella lesbica (nel film la sua figura è centrale come colonna portante della sua sicurezza emotiva), i cui amici omo saranno la sua vera famiglia. Lauper quindi si batte per loro e in generale per la libertà di tutti (ovviamente anche sessuale, come esemplificato nella canzone She Bop, un elogio alla masturbazione che fece molto parlare): la si vede in piazza, che discute seduta in mezzo ai politici, indefessa paladina dei diritti civili, condottiera di battaglie umanitarie.
Le battaglie che ha dovuto combattere sono state tante, in primis quelle con se stessa (le prime ribellioni allo status quo la vedono come irrequieta fanciulla in preda all’LSD e agli eccessi, alla ricerca di una direzione autentica), poi quelle in amore, con l’unione che sa di favola con il suo manager David Wolff sempre presente nei video e nei suoi progetti, unione che a un certo punto il successo inevitabilmente sgretola. In seguito, quelle con la discografia (a parte la suddetta causa e la bancarotta che ne conseguì), rea di volerla relegare ad un’eterna Girls Just Want to Have Fun e che la vuole dare in pasto al successo di massa senza considerarla come un’artista capace di intendere e volere in maniera indipendente. Motivo per cui negli anni ’90 non proprio esaltanti della sua unica hit I Drove All Night Lauper sperimenta nuove vie dandosi allo score dei musical, vincendo un Tony per la musica di Kinky Boots (prima donna a vincere nella categoria), trasformando la sua caduta dall’olimpo del pop in una rinascita artistica che non è più data in pasto alla qualunque, ma un consapevole e maturo dosaggio del proprio talento (come dimostra il ritorno alle radici musicali di Memphis Blues, album del 2010 che ha avuto un grande successo in area indipendente).
La ricordiamo, come la “rivale” Madonna, coinvolta nel mondo del cinema, non solo per la colonna sonora dei Goonies, ma come attrice, in particolare per la pellicola Vibe che se all’epoca era considerata discutibile dalla critica, ora è oggetto di culto. Che questo documentario possa avere lo stesso destino non possiamo saperlo: ha il difetto di essere un prodotto standard, in cui a parte la narrazione della vita della cantante non ci sono grandi guizzi che possano renderlo unico (e parlando di una come la Lauper forse sarebbe stato meglio qualcosa di più spiazzante). Ma ha il pregio di lasciare il campo all’artista, al genio di una grande donna e al suo mondo, che in fondo è l’unica cosa che conta. Al di là delle menate autoriali, lasciamo il canarino cantare.