Sto scrivendo la mia lunga storia in un’epoca in cui finalmente il vento è cambiato. L’idea di legalizzare la marijuana, per motivi medici o ricreativi, ha preso sempre più piede. La maggior parte delle persone razionali sono giunte alla conclusione che la pianta non sia una minaccia per la società ma possa anzi far del bene. Una tesi che sostengo da almeno mezzo secolo. Venticinque anni fa, però, queste argomentazioni cadevano nel vuoto.
Nei primi anni Novanta partecipai alla campagna elettorale di Gatewood Galbraith, un avvocato di Lexington candidato per la carica di governatore del Kentucky, favorevole alla legalizzazione. Io e lui girammo per tutto lo Stato su una Cadillac alimentata a carburante di canapa. Ottenne solo il 5,3% dei voti alle primarie del partito Democratico, ma non mi importava. Quando si candidò per la seconda volta, nel ’95, mi unii di nuovo alla sua campagna e fui ben felice di suonare per sostenerla. Questa volta, alle primarie ottenne il 9% dei voti. Nel ’99 passò al Reform Party e io rimasi al suo fianco. Alle elezioni finì per prendere il 15% dei voti: lo vedevo come un bel passo avanti.
La gente mi criticava molto per le mie scelte. Dicevano che non avrei dovuto associare la mia immagine all’erba, a chi fumava erba e alle varie sciocchezze a base di canapa. Per me non erano affatto sciocchezze. Ero convinto che fosse una buona cosa. E non me ne fregava un cazzo se quella presa di posizione mi danneggiava. Non potrei mai tradire la marijuana, come non potrei tradire un membro della mia famiglia o l’amico di una vita. Perché la marijuana non ha mai tradito me. A differenza dell’alcol, non mi ha mai reso cattivo o violento. A differenza della cocaina, non mi ha mai agitato o pompato l’ego. Al contrario, mi ha sempre calmato. A differenza dell’acido, non mi ha mai incasinato il cervello: me lo ha rasserenato. A differenza del tabacco, non ha provocato il cancro che ha ucciso mia madre e mio padre.
Devo molto alla marijuana. Mentre scrivo queste parole, a ottantadue anni, credo di poter serenamente affermare che la marijuana – assunta al posto di alcol, cocaina e tabacco – abbia contribuito alla mia longevità.
Nel 1994, quando il mondo guardava ancora dall’alto in basso chi fumava erba, mi fermai per qualche giorno ad Abbott. A volte tornavo a casa solo per rilassarmi un po’ e giocare a poker coi ragazzi. Quel sabato sera stavo rientrando in macchina ad Austin quando, dalle parti di Waco, mi resi conto che ero molto stanco: per non rischiare un incidente, decisi di accostare, sistemarmi sul sedile posteriore e fare un pisolino. Mi addormentai di botto. Mi svegliai quando due poliziotti si misero a bussare al finestrino. Mi puntavano addosso delle torce. “Buonasera, agenti”, dissi.
Le torce ispezionarono l’interno dell’auto da cima a fondo, fermandosi sul posacenere aperto. “Cosa c’è lì dentro?”, chiese uno dei poliziotti. “Uno spinello”, risposi. “Ha con sé altre sostanze illegali?”. “Credo di sì”, risposi, “Date un’occhiata sotto al sedile del passeggero.” Lui lo fece e ci trovò ancora un po’ di erba.
Mi spedirono in carcere alla McLennan di Waco. Rischiavo sei mesi di galera e una multa sostanziosa. Uscii su cauzione pagando 500 dollari. Il processo non ebbe luogo fino al marzo successivo, lo stesso giorno in cui avrei dovuto suonare ai Grammy a L.A. Decisi di rinunciare ai Grammy e presentarmi in tribunale. Il mio avvocato fece notare che gli agenti avevano spento il sistema di registrazione audio e video durante la perquisizione, e non avevano fornito un valido motivo per quel controllo sulla mia auto. Il giudice cestinò la causa e mi lasciò andare. Per dissipare eventuali rancori, tornai a Waco a suonare gratis per la Sheriffs’ Association of Texas: volevo solo far capire alle forze dell’ordine che non ce l’avevo con loro, ma che semplicemente ritenevo antiquate le leggi contro l’erba.
Quando suono, sul palco cerco di non parlare troppo: presento la canzone e finisce lì. Ma quella sera, davanti agli agenti, feci un’eccezione. In breve, dissi che sarebbe stato meglio per tutti se la marijuana fosse diventata legale, regolamentata e tassata come il tabacco. Ci fu un timido applauso.
In confronto alle ingiustizie patite da altri, quello che è successo a me è niente. Ray Charles mi ha raccontato che uno dei suoi musicisti una volta era stato beccato con un misero spinello a Houston, negli anni Cinquanta, e che l’avevano sbattuto in carcere per un anno. C’è una lunga lista di persone che hanno subito vere e proprie persecuzioni, per quel motivo. E non posso fare a meno di chiedermi: perché? Perché sprecare il prezioso lavoro delle forze dell’ordine per queste stronzate?
Da My Life. È una lunga storia di Willie Nelson con David Ritz, Il Castello Editore.