Ten Cities è il libro definitivo sul clubbing. In oltre 500 pagine, il volume curato dal Goethe-Institut tra Berlino e Nairobi racconta sessant’anni di musica elettronica attraverso la storia di dieci città in Europa e Africa, dieci scene culturali, dieci «laboratori notturni di diversi modi di vivere». Pubblicato da Spector Books – al momento solo in lingua inglese –, il libro racconta dieci scene uniche e affascinanti, un viaggio che vi porterà al Cairo, a Nairobi, Kiev, Johannesburg, Berlino, Luanda, Lagos, Bristol, Lisbona e anche Napoli, protagonista del saggio di cui potete leggere un estratto in esclusiva su Rolling Stone. Dai primi surreali concerti di Renato Carosone ai club della disco music, l’autore Danilo Capasso racconta la fine della guerra e i “nait” esclusivi nelle località turistiche, la nascita del “Neapolitan Power” e le contaminazioni dei primi anni ’70, la rivoluzione tecnologica e il cosmopolitismo degli anni ’80, le serate al Diamond Dogs, la nascita della Vesuwave.
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La storia del clubbing a Napoli
Introduzione
Quando si parla di club culture a Napoli non è possibile fare a meno di partire dalla forma urbana densa e verticale disegnata dai suoi quartieri che abbracciano il golfo. Con il suo clima temperato che rende strade e piazze luogo privilegiato di incontro, Napoli è teatro continuo di infinite aggregazioni sociali e creative. Uno scorrere di impulsi attraverso un tessuto urbano poroso che continuamente rielabora e rimescola contenuti e tensioni estetiche che nella musica hanno il loro più potente mezzo di espressione. Una città apparentemente ai margini dell’Europa, culturalmente meticcia, dove la dialettica tra l’identità mediterranea e quella europea, insieme con le influenze e gli scambi Atlantici hanno definito una geografia dello stare insieme e del paesaggio sonoro dalle risonanze planetarie. Caruso, la prima pop star globale, prese il mare verso l’America, portando con sé la tradizione partenopea, aprendo la strada al successo della musica Napoletana come gospel delle popolazioni emigrate dal sud Italia. Come per altre importanti città portuali, dalle stesse navi, per gran parte del secolo sono sbarcati ritmi e suoni che si sono ibridati nelle vene musicali della città, un’eredità sonora con cui fare i conti, un tema questo, che troveremo esposto con maggiore profondità nell’articolo di Iain Chambers e Vincenzo Cavallo.
La fine della guerra, gli anni ’70, l’arrivo del Neapolitan Power
Con la fine della guerra è sicuramente Renato Carosone l’artista più famoso a interpretare per primo questo milieu culturale e nei primi anni ’50, assieme al suo complesso (orchestra) darà il via alla stagione del nightclubbing partenopeo suonando all’apertura dello Shaker Club, un locale dedicato ai nuovi ricchi e ai militari americani. Gli americani sono ospiti fissi in città dal 1943 con la loro principale base militare del Mediterraneo. La loro presenza, tra l’altro, oltre ad influire in maniera determinante sui suoni della città, darà l’impulso alla nascita del fenomeno dei night club, a Napoli e in Italia. Il nightclubbing italiano dell’epoca (dal ’46 al ’64 circa) fu un genere di intrattenimento dedicato prevalentemente alla borghesia negli anni del boom economico, ma è stato anche un’insostituibile palestra per numerosi musicisti italiani, alcuni dei quali diventeranno famosi negli anni seguenti, quando con gli anni ‘60 si aprirà la stagione dei cantautori che caratterizzerà la scena pop italiana per almeno venti anni. Carosone e la sua band frequentano un suono che mescola jazz e swing con i ritmi latino americani e la canzone napoletana. L’attitudine è ironica, i concerti sono performance ai limiti della pura comicità nel dominio della parodia, ma il ritmo è travolgente e le sue canzoni diventano famosissime. Nel ‘57, il singolo Torero è per due settimane ai vertici delle classifiche statunitensi.
Sempre nel ‘57, Carosone, dopo aver suonato a Caracas, Cuba e Rio De Janeiro, approda a New York per esibirsi al Carnegie Hall. Sono gli anni in cui al 9 di rue Git-le-Coeur, nel cosiddetto Beat Hotel nasce il cut-up letterario di Burroughs e Gysin, la postmodernità è alle porte, ma la Napoli che va incontro ai fermenti culturali degli anni ’60 è ancora in larga parte legata alla cultura popolare tradizionale, rappresentata dalla canzone classica napoletana e da eventi come la festa di Piedigrotta e il Festival della Canzone di Napoli che proprio negli anni ’50 raggiunge la massima notorietà. Era questo il contesto socioculturale esistente accanto alle élite che potevano frequentare i “nait” esclusivi, i quali non erano solo in città, ma anche nelle prestigiose località turistiche vicino Napoli, come Capri, Ischia, Positano e Sorrento. La breve testimonianza di un utente raccolta su un forum internet riporta delle basiche informazioni sulla vita notturna a Napoli del dopoguerra:
“Ma per andare a ballare? Nel dopoguerra ebbe successo Il giardino degli aranci in via Manzoni di fianco alla funicolare, era un dinner-dancing, cui seguirono il Lloyd in via Partenope e lo Shaker Club in via Nazario Sauro. In questi locali si esibivano i piccoli complessi musicali del tempo, come Carosone, cui seguirono più tardi Peppino di Capri, gli Showmen, gli Alunni del Sole e tantissimi altri”.
Mentre nel ‘59 Carosone si ritirerà dalle scene, nel ’58, come ricordano anche Chambers e Cavallo, Domenico Modugno vincerà il festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu (Volare), iniziano ovunque in occidente anni di ribellione, rivolta, anticonformismo, da quel momento tutto sarà diverso, e i cantautori diventeranno la voce della trasformazione politica e culturale in corso. Sono anni in cui Napoli sembra incapace di esprimere artisti o situazioni di particolare interesse, anche se nel sottobosco tardo-beat si prepara ad emergere una generazione di nuovi artisti nati alla fine della guerra e intenti alla creazione di un personale stile di blues “metro-mediterraneo”, una scena che comincerà ad essere visibile nei primi anni ’70 e si chiamerà poi Neapolitan Power. Le tendenze che si configurano in questo passaggio temporale riflettono l’ambivalenza della città nel suo rapporto con la musica: da un lato l’influenza del rock e del beat “bianco” britannico e oltreatlantico, dall’altra il respiro r’n’b e jazz “nero” afroamericano e meticcio, e tutto questo innestato su radici musicali mediterranee e popolari.
La scena partenopea si risveglia nella seconda metà degli anni sessanta, in cui, oltre agli Showmen (dove troviamo il sassofonista James Senese) molto popolari grazie al successo del brano Un’ora sola ti vorrei, ci sono gruppi come i Battitori Selvaggi, i Volti di Pietra, i Città Frontale e poi gli interessantissimi Balletto di Bronzo, una vera è propria band culto del rock progressivo italiano, il loro primo disco del 1969 si chiama Sirio 2222, un lavoro ancora radicato nel beat e nella pop music di radice anglosassone, che però non ha nulla da invidiare alle produzioni inglesi o americane contemporanee. Ma è il loro secondo disco YS ad essere ancora oggi ritenuto una pietra miliare del genere progressive rock italiano. Questo secondo album ha come protagonista un giovane tastierista e vocalist che all’epoca ha solo 16 anni, si chiama Gianni Leone.
Nel 1971 entrano in scena gli Osanna, un gruppo che nasce come spin-off dei Città Frontale, che partendo da un’impostazione rock, articola complesse suite che abbracciano diverse sfumature stilistiche mescolando registri antichi e moderni con l’improvvisazione jazzistica e le partiture del blues insieme alla riscoperta del folk partenopeo. Il primo disco uscito nel 1971 è L’uomo, nel 1973 invece, dopo aver firmato la colonna sonora del film Milano calibro 9, classico poliziesco all’italiana, esce il loro secondo lavoro che si chiama Palepoli, dove troviamo interessanti spunti che aprono in maniera evidente ad una riscoperta della musica popolare. È una ridefinizione dell’identità sonora partenopea che in questi primi anni ’70, con il lavoro della Nuova Compagnia di Canto Popolare di Eugenio Bennato, Carlo d’Angiò e Roberto De Simone, diventa una delle tracce su cui la città ritroverà la sua unicità estetica e poco dopo anche il successo commerciale nazionale con l’affermazione di un gruppo di artisti sotto l’etichetta di Neapolitan Power (Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito, James Senese, Enzo Avitabile). Le dinamiche culturali che definiscono la nascita di questa scena musicale sono ben delineate nell’articolo di Chambers e Cavallo, e segnano quindi il progressivo ritorno di Napoli nel mainstream musicale italiano. Scrivono: “James Senese, Napoli Centrale, Pino Daniele, Edoardo Bennato – crossed the street from the post-war port clubs for US servicemen into the urban stronghold of Neapolitan song”.
I protagonisti del Neapolitan Power sono ben accolti dal pubblico e dal mercato discografico. La Nuova Compagnia di Canto Popolare esce nel 1971 con il disco omonimo, e si impone sulla scena internazionale con la partecipazione al festival di Spoleto nel 1972. Edoardo Bennato, cantautore e architetto, prolifico e anticonformista, pubblica numerosi album fino al successo di Sono solo canzonette nel 1980. Tony Esposito, inventore di strumenti a percussione dal suono inconfondibile, come quello del tamborder che caratterizza la sua hit discografica del 1985 Kalimba de luna (5 milioni di copie nel mondo), pubblica nel 1975 il suo primo disco: Rosso napoletano, un lavoro strumentale già chiaramente orientato alla world music. Pino Daniele, che sarà il più famoso di tutti, debutta nel 1977 con Terra Mia. Il batterista Tullio De Piscopo, un vero e proprio acrobata delle percussioni, con tecnica mozzafiato e anima funk. Maturato suonando nei night club americani vicino alla base NATO di Bagnoli a Napoli produce il suo primo disco nel 1974, successivamente il suo singolo del 1984 Stop Bajon è ancora oggi un classico nei dj set di Richard Dorfmeinster, almeno quando suona a Napoli.
Infine, il più giovane tra gli artisti che si ascrivono al Neapolitan Power, ma non per questo meno rilevante é Enzo Avitabile. Anche lui ha profonde radici nel funk e nel jazz, il suo lavoro più noto è l’album S.O.S. Brothers, del 1986, il cui remix del singolo Black Out diventa fortunosamente una hit balearica dell’Amnesia a Ibiza, vincendo persino un premio. Nel 1988 gli Afrika Bambaataa collaborano con Avitabile al suo album Street Happiness. Alcuni di questi artisti, ma non solo, li incontriamo in due eventi, importanti momenti eterotopici della cultura urbana locale, come emergono dal confuso magma della rete e dalle testimonianze raccolte durante questa ricerca. Gli eventi in questione sono il Be-in festival del 1973, organizzato proprio dagli Osanna, e Il Festival di Licola del 1975. Sono gli anni del rock progressivo e psichedelico, c’è ancora l’onda lunga dei grandi raduni hippie come l’isola di Wight e Woodstock. Il Be-in Festival si può considerare come la Woodstock Napoletana, sebbene fosse già fuori tempo massimo. È il primo evento di musica “alternativa” di questa scala a Napoli, cui partecipano 25.000 persone. La location è una pista di Go Kart sulla collina dei Camaldoli nel complesso sportivo Kennedy. Sul palco suonano i Biglietto per l’Inferno, il Franco Battiato di Pollution, Living Music, Era d’Acquario, Pholas Dactylus, Atomic Rooster.
Il secondo evento invece è il Festival di Licola del 1975, che prima di essere un festival musicale, 4 giorni dal 18 al 21 settembre, è una manifestazione culturale a 360 gradi con una forte connotazione politica a cui parteciperanno quasi 50.000 persone, con circa 4000 ospiti fissi nel campeggio. Il Festival di Licola era organizzato dagli “Organismi studenteschi della sinistra”, con adesioni da parte di forze politiche e collettivi controculturali. Il motto era: “dal movimento degli studenti a tutto il proletariato giovanile”: una festa di lotta con musica, cinema, teatro e libera creatività in un grande campeggio in riva al mare. Tra i nomi degli artisti invitati troviamo gruppi e cantautori italiani e napoletani tra i quali Il Banco del Mutuo Soccorso, Alan Sorrenti, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Napoli Centrale, Tony Esposito, Canzoniere del Lazio e diversi “altri cantanti politici del folk”.
E poi arrivano gli anni ‘80
Gli anni ’80, un decennio di transizione, proiettato verso la rivoluzione tecnologica delle comunicazioni e la globalizzazione economica. Il punk era arrivato in città con qualche anno di ritardo, sulla scia sonora dei Sex Pistols, incanalando il rifiuto all’omologazione sociale e culturale, e nel caso di Napoli anche le polarizzazioni politiche ed estetiche rappresentate in città dalla cultura di sinistra, dal perbenismo cattolico, dai fascismi latenti. Dire anni ‘80 a Napoli significa anche dire terremoto, ultima delle catastrofi che ha inferito sul continuo tentativo della città di sopravvivere a se stessa.
Uno dei protagonisti di questo periodo che ho voluto incontrare è Salvatore Magnoni (oggi produttore di ottime bottiglie di vino rosso e olio sopraffino nelle sue campagne nel cuore del Cilento). Per circa vent’anni Salvatore è stato parte attiva della scena musicale cittadina, creando alcuni degli eventi e dei club che ne hanno segnato la vita notturna. Sempre indaffarato dietro il banco di un negozio di dischi (da Tattoo Records passando per Flying e poi tra gli inventori della Fonoteca, dove si noleggiavano i CD), o nel ventre di un club a suonare musica e organizzare serate. Già nel 1982 Salvatore e l’amico Salvio Cusano esordiscono con un programma su una nuova radio libera, Radio Marte.
Propongono musiche che cercano di prendere una distanza dal “Neapolitan Power” quella mistura mistura di rock, funky, jazz e blues, incorniciato in una matrice mediterranea rappresentata da una rivisitazione della tradizione musicale popolare. Era anche un tentativo di distaccarsi dalla deriva commerciale della disco music e del pop proposti nelle discoteche. In generale il rapporto degli artisti napoletani con la loro città si confronta ciclicamente con tentativi di rielaborazione della napoletanità, nella continua ricerca di una centralità culturale, di un ritrovato splendore che i fatti della storia hanno di volta in volta negato; o al contrario nel bisogno di evadere questa identità vista come un peso che impedisce di deterritorializzare l’identità sonora.
In questo modo, ad esempio, nascono le correnti culturali che cercano di riagganciare la città ad un flusso cosmopolita, non identitario, di allontanarsi dall’influenza forte della politica nella cultura, per trovare nella musica spazi di evoluzione creativa, di incontro al di là delle ideologie e degli steccati sociali. I segnali di questa necessità sono favoriti e accompagnati dalla cultura punk, da una tendenza che spesso porterà Napoli a intrattenere contatti diretti con le città di riferimento di questo movimento, in particolare con Londra e il suo carico di nuova musica, per importare artisti, dischi, mode. Di questi tempi in città si ascolta il pop italiano e la disco music nelle discoteche, esistono ancora i puristi del rock progressivo degli anni ’70, gli orfani della psichedelica post hippie, e il jazz, che in città è da sempre molto seguito e suonato. Nel programma radiofonico di Salvio e Salvatore, chiamato Speed of Life, ci sono i primi tentativi di proporre attraverso la radio suoni diversi, programmando musiche di Wall of Voodoo, Echo & Bunnymen, The Clash, Psychedelic Furs, Iggy Pop. Questo sempre all’inizio degli anni ’80, quando in città si vedevano i primi locali punk come lo ZX di via Atri in pieno Centro Storico, il Trilogy sulla collina del Vomero (dove troviamo in consolle Gigi D’Aria, il primo dj alternativo della scena), il Pulsar di via Costantinopoli, il Caffè della luna nel quartiere di Chiaia. Nello stesso tempo, Salvatore Magnoni assieme a Salvio Cusano ed altri amici, cercano un club per proporre i nuovi generi di musicali aperti alla ricerca e, con una buona dose di spontaneità organizzativa, l’11 giugno 1984 aprono il Diamond Dogs. Sono ragazzi di diversa estrazione sociale provenienti da diversi quartieri della città come il Vomero, Piscinola, Soccavo, e da alcune aree della provincia, Racconta Salvatore:
“C’erano discussioni fra noi. C’era l’ala più radicale dalle scelte estreme, e c’era la voglia di pop, così come ci furono i mercoledì di Nicola Catalano, Atrocity Exhibition, rumori industriali per pochi, e i sabati con la dance di Patrizio Squeglia. Fra noi c’era il tardo sessantotto e i postumi del settantasette. C’era la classe operaia, la piccola borghesia, l’artigiano di provincia, la middle class del Vomero e il jet set di Chiaia. I riferimenti culturali tracciavano una mappa ampia, nella geografia mutevole della sinistra dei primi anni ottanta, tirata da una parte dai puristi delle feste dell’unità, dei cantautori e del progressive, dall’altra dal politicamente scorretto della nuova onda, dove riviste come Il Male e Frigidaire mischiavano le carte. Nel Diamond Dogs coesistevano queste spinte, gli occhialini tondi di Luca e gli anfibi neri di Tonino “Piccolone”, i capelli lunghi e biondi di Stefania e quelli corti, squadrati, di Sandra.”
Il Diamod Dogs è il classico genere di locale che possiamo trovare nelle aree della città storica anche oggi, ricavato in spazi ipogei in genere formati da sequenze di piccole stanze, cantine e sotterranei di palazzi antichi, o nel caso del Diamond Dogs stesso, da un utilizzo creativo delle cisterne dell’antico acquedotto greco/romano in disuso e cave di tufo, che caratterizzano il poroso sottosuolo della città. Sono spazi nascosti, di rado visibili dalla strada, spesso celati all’interno di cortili, dove passando da piccole porte e scendendo rampe di scale si poteva accedere in questi mondi nascosti.
Ricorda ancora Salvatore:
“la postazione del dj era inizialmente sul mezzanino, poi l’anno dopo sotto, dietro un frontale di furgone. Tutto il locale è scavato nel tufo. Sotto la postazione del dj abbiamo messo il bar, che poi sarebbe un bancone frigo che non riesce a raffreddare le bevande, che sono poche e finiscono subito, e qualche sacco di carta per alimenti con centinaia di panini da riempire. Non c’è attacco di acqua, corrente, nessun cocktail, nessun bicchiere di vetro. Lattine e bottiglie di birra, una micidiale affettatrice a mano per formaggi e prosciutti. Igiene da nave pirata. Le pareti non sono intonacate. Le abbiamo coperte di calce che costava di meno, ma ben presto l’alto tasso di umidità presente nelle grotte miscelato con il calore dei corpi fa liquefare la calce che si sposta sugli abiti di chiunque sfiori le pareti. Pareti sulle quali ognuno di noi ha disegnato delle cose, corpi danzanti, stelle cadenti. Sono affreschi primitivi, raccontano i nostri desideri, la voglia di incontri. Anche questi disegni dureranno poco, il tempo di scivolare via, come sogni al mattino”.
Salvatore ricorda una certa difficoltà della sinistra di leggere il contemporaneo, di riuscire a codificare stili e generi nel loro reale contesto culturale. Questo ha portato una parte dei giovani di sinistra, sia negli anni ‘80 che dopo, nei primi ‘90, a considerare con sospetto e distanza le rivoluzioni del punk, della new wave e più tardi nei confronti della musica elettronica e della techno. Non solo per diversità estetiche, ma di posizionamento politico e di modalità di aggregazione. La musica per la sinistra doveva essere musica di denuncia diretta, di impegno sociale esplicito, non poteva parlare d’amore, non poteva essere semplicemente strumentale, disimpegnata, troppo edonista, o peggio nichilista. Questo limite culturale è uno dei principali motivi che spinge la nascita di spazi come il Diamond Dogs, uno dei locali underground di Napoli che ancora riverbera storie e ricordi, di sicuro un punto di svolta nella storia del Clubbing partenopeo, capace di condensare le molteplici tensioni di superamento di tali limiti culturali socialmente sedimentati. Il Diamond Dogs è quindi uno spazio inquietante specialmente dal punto di vista politico della sinistra, si tratta di uno spazio topograficamente anomalo, non codificabile, un’eterotopia che mette in discussione i riferimenti tradizionali del conflitto sociale, quantomeno nel contesto italiano e nello specifico napoletano.
Il Diamond Dogs dura fino al 1988, e nel frattempo crea anche un gemellaggio con uno dei primi centri sociali aperti all’epoca, Segnali di Accellerazione, localizzato in provincia nella città di Acerra. Questo gemellaggio porterà uno scambio molto proficuo con la periferia, un flusso di stimoli e relazioni che segnò la strada anche per futuri centri sociali cittadini e nuovi locali periferici. Purtroppo in questo magma di creatività e confusione fa la sua comparsa l’eroina, la droga che minerà dall’interno la spinta creativa e le possibili evoluzioni di quanto stava accadendo e che prenderà in questi anni il sopravvento per diventare un problema sociale molto serio. All’inizio degli anni ottanta l’eroina era molto più diffusa nella provincia, la criminalità aveva centri di distribuzione specialmente nell’area vesuviana, Ercolano, oltre ad essere la sede del più importante mercatino di vestiti usati della regione, dove generazioni di alternativi hanno inventato i loro guardaroba, era, ed è stata per lungo tempo anche un importante piazza di spaccio. In questi anni, prima del dilagare dell’eroina, le droghe più diffuse erano hashish, l’erba, le anfetamine e gli acidi. L’ecstasy sarebbe apparsa in città alla fine degli anni ottanta, con l’arrivo della musica house e del clubbing contemporaneo.
Sempre nel Diamond Dogs in questi anni possiamo incontrare i gruppi napoletani che fanno parte di una nuova corrente estetica locale: la Vesuwave, la new wave del Vesuvio. Erano artisti che guardavano alla musica oltremanica per emancipare il suono partenopeo ormai paludato nelle dinamiche del Neapolitan Power. Tra i gruppi della Vesuwave che si esibiscono al Diamond Dogs troviamo Bisca, Les Bandards Foux, Rhythmotion, i primi Almamegretta, Cibo, Terrapin, Contropotere. Dal resto d’Italia arrivano i Detonazione, i Diaframma, i Liquid eyes, i Not Moving. Passano nel locale diversi gruppi importati da Londra, i Christian Death, Jazzbutcher, Living in Texas, i Playn Jayn e nel novembre dell’84 i ragazzi del Diamond Dogs portano a Napoli Nick Cave, in uno speciale concerto tenuto al teatro Ausonia.
Disco music a Napoli
La disco-music a Napoli è figlia della famiglia Niespolo, imprenditori che hanno dato vita alle prime discoteche della città, una su tutte il KISS KISS, aperta nel 1972. Nel 1976, il proprietario del Kiss Kiss decide di trasmettere i ritmi della disco music in diretta via etere, così alle 18.30 del 12 settembre il dj Sasà Capobianco avvia le trasmissioni sulle frequenze 89.00 con il singolo Ramaya di Afric Simone. Il programma, che sarebbe durato 10 anni, si chiamava discolive, e da questo progetto nacque radio Kiss Kiss, una delle prime radio libere di Napoli a trasmettere in diretta da un club, ed oggi grande network radiofonico di scala nazionale.
I Club della disco music erano prevalentemente posizionati nei quartieri moderni, sulle colline del Vomero, a Chiaia, a Posillipo; si chiamavano Galapagos, Papillon, Piccadilly, la Mela, erano club in quartieri della “Napoli bene”. In alcuni di questi locali, durante gli anni ’80 spesso lavoravano bravi dj che allargavano i confini della disco music ormai commerciale proponendo anche buona musica funk e soul, attraversando facilmente lo spazio da Rapper’s Delight della Sugar Hill Gang a Because the Night di Patti Smith. La curiosità è che il pubblico di questi club, non si incontrava per ascoltare un determinato tipo di musica, ma in base alle appartenenze di classe e di fede politica, per cui spesso era possibile incontrare in questi dancefloor, giovani fare il saluto fascista ballando Because the Night. Era questa l’altra faccia delle polarizzazioni sociali e politiche che si riversavano nella vita culturale della città, ed emergevano come contraddizioni e decontestualizzazioni estetiche.