Fu un cortocircuito di quelli che raramente accadono nel rock. Mentre oltre mezzo milione di fricchettoni sballati e coi capelli lunghi si radunavano poco lontano da Woodstock, per celebrare pace, amore e rock’n’roll, loro stavano dando gli ultimi ritocchi a un disco he non c’entrava nulla con quello che accadeva nel mondo. Era il 1969, l’anno in cui l’uomo andava sulla Luna, i giovani erano convinti di fermare la guerra in Vietnam facendo levitare con il pensiero il Pentagono, le regole del passato venivano contestate. Era l’anno in cui tutto sembrava possibile: addirittura che stesse cominciando un mondo nuovo. Loro, invece, avevano i capelli corti, vestivano di nero, vivevano reclusi in una casetta di legno nei boschi di Woodstock e scrivevano canzoni che narravano di soldati confederati, predicatori con la Bibbia in mano, contadini e famiglie povere. In poche parole, invece di guardare al futuro, guardavano al passato, alla gente che aveva costruito l’America. Erano quattro canadesi e un cittadino dello Stato dell’Arkansas: Robbie Robertson, Rick Danko, Garth Hudson, Richard Manuel, Levon Helm.
La copertina del disco, pubblicato nel settembre del 1969, li vedeva ritratti sporchi e trasandati sotto alla pioggia, in un bosco, come fantasmi della Guerra Civile, come pellegrini che avevano sbagliato direzione verso la Terra Promessa, come fuorilegge inseguiti da uno sceriffo spietato. In realtà, il disco era stato inciso a Hollywood, nella villa che era stata la casa di Judy Garland e Sammy Davis Jr. Come ha spiegato Robbie Robertson, l’idea era quella di restare lontani dal mondo, «per avere una ambientazione stile vecchio club». Proprio come era successo quando i cinque, due estati prima, insieme al loro mentore Bob Dylan, avevano registrato un mucchio di canzoni nella cantina di Big Pink, quelle passate alla storia come Basement Tapes. «Fu Dylan a introdurci a quel mondo di ballate e canzoni fuori del tempo, a farci entrare in quella ‘repubblica invisibile’ di storie e personaggi dimenticati», ha detto Robertson.
Il gruppo non aveva nome. Erano The Band, la banda. Si tenevano alla larga da tutto e da tutti. Era un gruppo senza un leader, né un guitar hero. Ogni membro ne era parte essenziale, era un ensemble democratico. Anche il disco non aveva un titolo, passerà alla storia come The Brown Album per via del colore della copertina. Avrebbe potuto intitolarsi America: raccontava lo spirito, le promesse, i tradimenti di una nazione. A differenza dell’esordio Music from Big Pink uscito un anno prima, una raccolta di ottime canzoni con un suono già distintivo, si trattava di una sorta di concept album sul Sud degli Stati Uniti, da cui proveniva il batterista Levon Helm, che del disco era l’anima. Iniziava con l’annuncio della primavera imminente e finiva con l’autunno, con un agricoltore che implora la salvezza dalla rovina finanziaria in King Harvest (Surely Come). L’inizio, Across the Great Divide, è già segnato dalla rovina imminente: il protagonista della canzone chiede alla moglie Molly di mettere giù la pistola che gli sta puntando contro. Le promette che insieme si rifaranno una vita, raggiungeranno il sogno americano superando “the great divide”. Come ha scritto lo storico della musica Greil Marcus, «Across the Great Divide e le altre canzoni dell’album hanno lo scopo di attraversare il grande divario tra uomini e donne, tra passato e presente, tra il paese e la città, tra il nord e il sud». Il Great Divide, o Continental Divide, è la linea immaginaria che divide in due gli Stati Uniti, tra il bacino idrografico dei fiumi che finiscono nell’Oceano Atlantico da quelli che finiscono nel Pacifico. Intorno a questo scenario ruota tutto il disco.
Quando incidono l’album, i cinque sono in giro da un decennio. Si sono fatti le ossa neanche ventenni nelle peggiori bettole al di qua e al di là del confine fra Canada e Stati Uniti accompagnando l’eroe del rockabilly Ronnie Hawkins e poi nelle più grandi arene del mondo come musicisti della maggior star dell’epoca, Bob Dylan. Sanno tutto di rock’n’roll, rockabilly, blues, folk, black music, gospel, country. Tutti quegli stili sono espressi ai massimi livelli in ogni canzone, a partire dal brano di apertura, un lamento accompagnato da una tuba che suona come sia stata abbandonata per un secolo e ripresa in mano all’improvviso. Il funk’n’roll di Up on Cripple Creek introduce per la prima volta nella musica rock un clavinet Honer suonato con un pedale wah wah, è il riff che si ascolta dopo ogni ritornello. Quel suono sarebbe divenuto marchio distintivo della musica funk dei primi anni ’70 e Stevie Wonder l’avrebbe usato nella sua grande hit Superstition. Il brano parla di un camionista che si sta recando a Lake Charles, Louisiana, e sogna di incontrare la sua amante del luogo, Bessie. Dirà Robbie Robertson: «Noi non cantiamo di gente in cima alla scala sociale. Parliamo di case in mezzo ai campi o di questo ragazzo che guida camion per tutto il Paese, conosce persone diverse, siamo curiosi di sapere cosa gli succede». Il “disco marrone” è anche un disco di canti di lavoratori, è workingmen music.
La bravura musicale di The Band emerge pienamente nell’approccio di Rag Mama Rag, uno stompin’ da fattoria in mezzo ai campi di cotone, nel Mississippi: il batterista canta e suona il mandolino, il pianista è alla batteria, il bassista suona il violino, l’organista suona il piano e il produttore dell’album è alla tuba. E anche in Rockin’ Chair in cui i tre cantanti della band – Manuel, Helm e Danko – intrecciano le voci dentro e fuori l’armonia convenzionale in uno stile vocale colloquiale che fa riferimento alla cadenza di chiamata e risposta della musica gospel e che evoca canti sotto al portico di casa o in qualche roadhouse cadente.
L’eroe del disco è Virgil Cane, l’ex soldato confederato protagonista di The Night They Drove Old Dixie Down, brano che nella versione di Joan Baez volò in cima alle classifiche. È l’inno dei perdenti e per la prima volta in una canzone la Guerra Civile è vista dalla parte di chi l’ha persa. A molti sembrò impossibile che una canzone scritta a Hollywood nell’estate del 1969 suonasse così lugubre e spettrale, ma anche così onesta e veritiera da sembrare un brano della tradizione risalente all’epoca dei fatti descritti, l’inverno del 1865.
The Band ha avuto un impatto così potente sulla scena musicale del tempo che il critico del Village Voice, Robert Christgau, scrisse addirittura che era meglio di Abbey Road dei Beatles, pubblicato solo qualche giorno dopo. Il 12 gennaio 1970, una foto di The Band finì sulla copertina del settimanale Time, accompagnata dalla scritta: “The new sound of country rock”. Per Eric Clapton, la musica del gruppo era talmente innovativa, onesta e pura da spingerlo a lasciare i Cream per cercare di imitarne il sound. Tutta la scena musicale americana della prima metà dei ’70 ne è stata influenzata: Eagles, Nitty Gritty Dirt Band, Flying Burrito Brothers. Nessuno, però, è riuscito a ricreare quel clima con la stessa onestà e verità che si sentono in The Band.
Negli anni ’90 e nei primi anni 2000 due diverse ondate di giovani musicisti ha guardato a questo disco per trovare ispirazione. È la generazione dell’alternative country guidata da Uncle Tupelo, Ryan Adams e Jayhawks e poi la breve ma brillante ondata di Mumford & Sons, Decemberists, Avett Brothers, Fleet Foxes. Ma se c’è un gruppo che ha saputo raccogliere l’eredità spirituale di The Band filtrandola attraverso visioni elettro-pop e psichedeliche, trasformandone il linguaggio ma non l’essenza, sono stati i Mercury Rev con il disco del 1998 Deserter’s Songs in cui appare anche l’ultimo superstite insieme a Robbie Robertson di quei magnifici cinque ragazzi, Garth Hudson. L’importanza del “disco marrone” è stata sancita una volta per tutte nel 2009, quando è stato inserito nel National Recording Registry per l’importanza culturale, storica ed estetica e per la capacità di informare e far riflettere sulla vita negli Stati Uniti.