Non deve certo pulire la camera d’albergo. Nessuno occupa la suite di un hotel francese di lusso a meno che non sia ricco e megafamoso. E se sei ricco e megafamoso, c’è un sacco di gente disposta a pulire al posto tuo. E invece la ragazza in accappatoio raccoglie le flûte di champagne, spinge il carrello del ghiaccio nell’angolo, sistema ciò che resta dopo una notte di festa. Parla di paura, di ansia e di come la settimana precedente, quand’era in Spagna, qualcuno l’ha convinta che era sull’orlo di un esaurimento nervoso. Le luci si abbassano, lei appoggia la testa per riposare e la telecamera si sofferma sul volto, catturando quello che sembra un momento di estrema vulnerabilità.
È l’agosto del 1990. Mancano vent’anni all’invenzione di Instagram, una quindicina a TMZ. Twitter non è neanche un’idea nella testa di Jack Dorsey. Nell’era mesozoica della storia delle celebrità, curare l’immagine di una persona è ancora un lavoro affidato a professionisti, la notorietà è una merce e la privacy moneta di scambio. Ma chi è questa donna, una popstar in buona fede che consente a qualcuno di filmarla mentre si confida, getta via bottiglie di Heineken e dorme? Bitch, è Madonna. E sta riscrivendo le regole del gioco.
Nel 1991 A letto con Madonna (nell’originale Madonna: Truth or Dare) era stato annunciato come un film musicale diverso dal solito, la storia di un tour, una macchina del tempo, un progetto da imitare. Doveva essere una raccolta di riprese dei concerti del Blonde Ambition Tour, ma si è trasformato nell’esempio da seguire per inserire un po’ di candore nei documentari sulla musica pop, un film in cui si sceglie di non nascondere le crisi da backstage, il duro lavoro, le lacrime e i brutti incontri con le celebrità, ma li integra con quel che accade sul palco. È un incredibile dramma che gira attorno a Madonna. Ma è anche un ritratto unico, senza filtri o sceneggiatura di una popstar con manie di controllo. È cinema verità, con protagonista il successo pop. Avrebbero dovuto chiamarlo Truth *and* Dare.
La storia è leggendaria. Dopo aver visto la performance messa in scena per la tesi ad Harvard dal regista Alek Keshishian, una versione di Cime tempestose in chiave pop, Madonna chiede un incontro. I due legano subito. Lui è assunto per girare video dei concerti e chicche nel backstage per un possibile speciale sul tour. Viene subito spedito in Giappone. Mentre è lì, inizia a intervistare i ballerini, un mix di uomini europei, asiatici, ispanici e afroamericani che hanno un ruolo fondamentale nello show, esattamente come i musicisti. E visto che può parlarci solo di mattina, appena svegli dopo una notte di feste post concerto, Keshishian conduce gran parte delle interviste direttamente a letto.
Il regista capisce subito che il materiale funziona. Lo stesso vale per le immagini di backstage e gli scambi notturni tra gli artisti. Dopo aver mostrato a Madonna il girato, le propone qualcosa di più grande, ampio e intimo di un film-concerto. Lei accetta e nonostante le proteste del management gli permette di tenere le camere accese tutto il tempo. Vuoi riprendere Madonna mentre recita ai truccatori poesie sulle scoregge, mentre prende a calci in culo gli stage manager per dei monitor difettosi, mentre ha uno scambio imbarazzante col padre dopo che lui l’ha vista ingropparsi un letto sul palco? Ecco il tuo pass esclusivo, Alek.
Il risultato finale è un mix seducente di immagini di un concerto e assurdità notturne di Madonna, tra incredibile professionalità e momenti “not safe for work”. Questa è la Madonna che hanno in mente tutti: la bionda esplosiva tutta nerbo e corsetti di Gautier (apprezziamo molto anche il look di Cabaret). Trent’anni dopo, il film sembra quasi il greatest hits dei suoi momenti privati, pietre miliari della cultura pop: la bottiglia d’acqua; Kevin Costner che definisce lo show “curato”; i poliziotti di Toronto che trasformano Like a Virgin nel Rubicone del primo emendamento; il bacio saffico; il flirt spudorato con Antonio Banderas (la moglie dell’attore è la vera figura eroica del documentario). E poi, Madonna che scherza con i ballerini sotto le lenzuola; la parata del Pride; le voci su una storia con l’unico ballerino etero del gruppo. E Warren Beatty.
Tutti ricordano il commiato mortale di Beatty – «Lei non vuole vivere lontano dalle telecamere, figuriamoci parlare… Che senso avrebbe parlare lontano dalle telecamera? A che servirebbe esistere?» – ma il suo vero momento di gloria arriva qualche momento prima, quando guarda il circo del backstage che esplode nel camerino di Madonna. Mentre la osserva struccarsi, fermo e in silenzio, le mette le mani sulle spalle. Poi guarda dritto verso la telecamera e, per estensione, verso la troupe che riprende l’incontro. Sorride e, con il tempismo degno di una star del cinema, scuote la testa. Stiamo parlando di un uomo che è stato famoso per decenni, che non capisce come mai qualcuno dovrebbe voler riprendere momenti così incasinati e ordinari. Madonna, invece, non capisce perché non farlo: perché non trasformare ogni sguardo dietro il buco della serratura in un vantaggio da sfruttare?
È così che si gestisce la fama nel ventunesimo secolo, uno scambio diretto tra fan e artista. La mistica va sostituita con l’identificabilità, e A letto con Madonna trasforma il successo in una questione d’equilibrio. Madonna è proprio come noi. Si arrabbia e si deprime e ha seratacce. In più, chi non vorrebbe passare il tempo con lei, vivere queste esperienze indimenticabili di solito riservate a chi è incredibilmente famoso?
Ci sono tante cose per cui A letto con Madonna è ancora rivoluzionario, dall’idea audace di mostrare come sono le persone quando smettono di essere gentili fino al racconto della vita dei gay un decennio dopo la crisi dell’AIDS e anni prima che Will & Grace la portasse nel mainstream. Il documentario è il modo con cui Madonna ha scritto la sua storia esibendo pregi e difetti ed è per questo che è il film musicale più influente dai tempi di Don’t Look Back di Dylan. Tutti, da Beyoncé a Justin Bieber fino a Billie Eilish, cercheranno di replicare quel mix di onestà brutale e show esagerati – se Madonna non avesse mostrato a tutti come fare, nessuno avrebbe mai visto Queen Bey ammettere la sua insicurezza di fronte a una videocamera o Katy Perry depressa e singhiozzante prima di un concerto.
Ma c’è una differenza: oggi pochissime popstar hanno la sicurezza o il coraggio necessario per affidare a un estraneo, a una figura non controllata in ogni movimento, il compito di raccontare la verità. Dopo la proiezione per il 25esimo anniversario al MoMA, Keshishian ha ammesso che molti grossi nomi della musica l’hanno contattato per ricevere lo stesso trattamento. Avrebbe ripreso tutto per una settimana, avrebbe avuto carta bianca, avrebbe montato il materiale liberamente. «Ma quando mi dicono di non usare quella parte, o di non riprenderli mentre fanno quella cosa, allora rispondo che non c’è nessun film», ha spiegato.
Ci sono troppi ostacoli da superare per girare un documentario così oggi, spiega Keshishian. Con A letto con Madonna, invece, è bastato l’ok dell’artista. Tutti facevano quello che lei diceva di fare, al diavolo Liz Rosenberg e Freddy DeMann. E quello che voleva era una serie di riprese straordinarie della verità, dura e cruda, 24 frame al secondo. Ce l’ha fatta e il risultato è leggendario. Madonna ha sempre voluto rischiare e superare i limiti. Questo documentario è una scommessa che, trent’anni dopo, è ancora vincente.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.