Che i fan s’arrabbino alla prima riga: la discografia solista di Roger Waters non è nel suo complesso all’altezza della fama dell’artista. Lo dico da watersiano. Da una parte c’è lo status di «creative genius of Pink Floyd», come recitano i cartelloni pubblicitari dei tour che ogni tot anni ci ricordano chi ha creato davvero The Wall o Animals. Dall’altra ci sono dischi solisti di livello altalenante: un album che non si discute, uno molto buono però prevedibile, uno folle quasi quanto The Final Cut, un dischetto invecchiato male perché arrangiato secondo la moda anni ’80, un paio di colonne sonore, due escursioni non folgoranti nei territori della musica colta.
Li ho messi in fila dal peggiore al migliore per festeggiare il compleanno del musicista, escludendo i dischi dal vivo che pure rappresentano una parte significativa dell’attività di Waters negli ultimi venti e passa anni. È stato infatti sui palchi, e non in sala di registrazione, che Waters s’è ripreso il titolo di genio visionario dopo un periodo di relativa marginalità. Quando ha riproposto al vivo i Pink Floyd ha fatto centro. Quando con un certo coraggio ha basato i suoi spettacoli sui dischi solisti, negli anni ’80, le cose non sono andate altrettanto bene. E difatti da allora non l’ha più rifatto: non ha portato in tour Amused to Death e non ha presentato come concept l’ultimo Is This the Life We Really Want?.
8“Ça Ira” (2005)
Dei Pink Floyd, Roger Waters è sempre stato l’autore di grandi testi, il cantante anticonvenzionale e audace, la mente creativa (incontrastata da un certo punto in poi), il bassista efficace. Mai però il musicista colto. Ci si è perciò stupiti quando ha voluto cimentarsi nella scrittura di un’opera – una vera opera, non un concept rock – sulla rivoluzione francese. Waters non ha gli strumenti per comporre una grande opera e difatti in certi momenti Ça Ira somiglia a un musical.
7“The Soldier’s Tale” (2018)
Per il centenario dell’Histoire du soldat di Igor Stravinsky, Roger Waters ha pubblicato la registrazione in cui ha ripreso in mano l’opera, un capolavoro del teatro da camera del Novecento, rimaneggiandone il testo. Waters fa l’istrione per trasformare il libretto di Charles-Ferdinand Ramuz in una favola morale su due dei suoi temi preferiti, guerra e avidità. Ma altera fatalmente l’equilibrio fra parti narrate e suonate e alla fine questo teatro della povertà (copyright Pierre Boulez) rischia di somigliare a un audiolibro.
6“Music from The Body” (1970)
Una colonna sonora di un documentario, ma soprattutto un esperimento, un collage a tratti giocoso di musiche e suoni ricavati dal corpo (rutti e flatulenze comprese) attribuito a Waters e al compositore Ron Geesin (vedi Atom Heart Mother). Per chi vuole canzoni, ci sono alcuni pezzi folk acustici che ricordano i Floyd in transizione dell’epoca. Nell’ultima Give Birth to a Smile ci sono pure loro, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason, ma non sono accreditati. Era il 1970. Per sentire un nuovo lavoro solista di Waters bisognerà aspettare il 1984.
5“When the Wind Blows” (1986)
Non è esattamente un album di Roger Waters, ma nella colonna sonora del film animato di Raymond Briggs 10 pezzi sono suoi e sono organizzati su CD come un’unica suite di musica per lo più strumentale. Lo stile è quello tipico di Waters e anche se non ci sono canzoni memorabili, è un mini concept su (avete indovinato) la guerra e l’olocausto nucleare. È il 1986, di mezzo ci sarà Radio K.A.O.S., ma il linguaggio musicale in parte si rifà ai Pink Floyd e in parte anticipa Amused to Death. Dentro ci sono anche la voce di Clare Torry, la chitarra di Jay Stapley, il sax di Mel Collins. La title track e canzone simbolo della colonna sonora era però di David Bowie.
4“Radio K.A.O.S.” (1987)
Forse l’unico grande errore del Roger Waters solista è questo: avere cercato per l’album del 1987 un suono al passo coi tempi, con le programmazioni e la co-produzione di Ian Ritchie. Radio K.A.O.S. è un concept su tema della comunicazione, rappresentato dalla vicenda di un paraplegico che capta le onde radio direttamente nella testa. Trattandosi di Waters, c’entra anche la guerra, in particolare i giorni in cui Stati Uniti e Regno Unito bombardavano la Libia, e ci sono suoni concreti, coi pezzi inframmezzati dagli interventi dei dj Jim Ladd. Il tour andò talmente male, rispetto a quello contemporaneo dei rinati Pink Floyd, che Waters non ne fece più per una dozzina d’anni. Del disco resterà The Tide Is Turning (After Live Aid), usata come finale pieno di speranza del The Wall a Berlino.
3“Is This the Life We Really Want?” (2017)
È tutto giusto nell’ultimo album di canzoni di Roger Waters. La poetica è quella che conosciamo, solo aggiornata. I suoni pure, giusto ammorbiditi dalla produzione di Nigel Godrich. La scrittura è talmente famigliare che le canzoni sembrano essere sempre esistite. Ci sono anche gli effetti speciali tipici del musicista e un tocco di delicatezza, direi anzi di vulnerabilità, che non sempre Waters concede. Se non è in uno dei primi due posti di questa classifica è perché il disco è stato pubblicato nel 2017, quando questo linguaggio sonoro era già storia. Waters non stupisce più, non spiazza chi lo ascolta, non impressiona, ed è un peccato.
2“The Pros and Cons of Hitch Hiking” (1984)
Non sono ubriaco, credo davvero che The Pros and Cons of Hitch Hiking sia un disco migliore dell’acclamato Is This the Life We Really Want?. L’album del 1984 è verboso, a tratti respingente, folle. Non contiene grandi canzoni (e però Every Strangers Eyes…). Proietta in uno spazio onirico e sessuale le follie politiche e belliche di The Final Cut, con Eric Clapton al posto di David Gilmour, e quindi con un tot di blues in più. E ha un carattere tutto suo, una sua coerenza ed esplosioni di follia e paranoia tipiche del Waters dell’epoca. Strano, ma vero: il musicista lo propose ai Pink Floyd come concept da pubblicare in alternativa a The Wall.
1“Amused to Death” (1992)
L’album che i Pink Floyd avrebbero potuto fare all’inizio degli anni ’90 se Roger Waters fosse rimasto nel gruppo – anzi, facendo del fantarock, l’album sarebbe stato migliore grazie alla musicalità di David Gilmour e quel suo modo di fare da contraltare alla verbosità di Waters. Amused to Death sta alla guerra nel Golfo come The Final Cut sta alla guerra delle Falklands. Il disco del 1992 è un concept con i “pieni” e i “vuoti” tipici di Waters che prende spunto dal saggio di Neil Postman Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business ed espone quelle idee sullo sfondo di un concept sulla cosiddetta guerra intelligente ad alto tasso spettacolare, che possiamo vedere in tv (oggi Internet). È un grande teatro degli orrori che finisce male: la nostra “supermarket life” è così idiota che quando gli antropologi alieni ci studieranno arriveranno alla conclusione che ci siamo autodistrutti e farlo ci è pure piaciuto.