Non è troppo tardi per ricordarci, ancora una volta, come in un mantra che non dovrebbe essere soggetto a fluttuazioni, che Janet Jackson è una delle più grandi artiste ad aver attraversato le lande del pop mondiale. Come suo fratello, d’altronde, il rumore di fondo attorno alla sua vita privata ha spesso offuscato l’immenso talento che da quel lontanissimo 1982, anno del disco d’esordio Janet Jackson, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, ma – troppo spesso – a dimenticare o dare per scontato.
Janet, infatti, non ha solo dovuto combattere, senza sosta, per emanciparsi dall’ombra del fratello (anche, paradossalmente, quando era più seguita, amata, pagata), ma ha anche dovuto affrontare tutti i pregiudizi e le trappole tese a contrastare l’ascesa di una donna e, in particolare, di una donna di colore.
Ma lei è sempre stata avanti. Superiore alle accuse del fratello, alla guerra mediatica che cercava di metterli una contro l’altro (come durante la lavorazione di Scream, la collaborazione tra i due che, ai tempi, divenne la produzione più pagata di sempre nell’ambito dei videoclip) e alle continue invasioni nella vita privata (dai gossip sulla presunta giovanissima maternità a quelli sui suoi partner e matrimoni), si è sempre mostrata come una donna con una propria integrità, capace di mostrarsi forte e di piangere, scrivere pagine d’arte sfidando il più ferreo status quo.
The Velvet Rope, nel 1997, è stata la somma di tutto questo, sia nelle sonorità, che sfruttano appieno le potenzialità tecnologiche del tempo per un suono ancora oggi preso a modello, sia nei testi, che affrontano temi tutt’altro che pop come omosessualità (maschile e femminile), abusi domestici, AIDS, sadomasochismo e, soprattutto, depressione. Argomenti che, ora, a 25 anni di distanza, sono non comuni, ma quantomeno possibili nel pop, ma che in quel momento storico sono qualcosa di fin troppo intimo per gran parte della stampa e del pubblico.
The Velvet Rope, infatti, almeno inizialmente, proprio per i suoi temi ostici, non riesce a far breccia e raggiungere il successo del disco precedente Janet, nonostante sia il primo lavoro dopo la firma che la renderà la cantante più pagata del momento, con un contratto stellare da 80 milioni di dollari capace di superare i guadagni di Madonna e di suo fratello Michael, “fermi” a 60. Il successo arriverà solo più avanti, grazie a un tour di 33 date (tutte sold out) in Europa capace di rilanciare le vendite del disco anche in America.
Questo concept album sull’introspezione troverà la sua chiave nel racconto, onesto e libero, della depressione, uno dei principali temi del disco, apparendo in più momenti come You, Every Time, Velvet Rope, Empty e Interlude – Sad dove Janet confessa: “Non c’è niente come aver tutto e sentirsi ancora tristi”. Nel 1997, Janet racconta a MTV che parte delle registrazioni del disco sono iniziate nel ’95 durante un periodo «duro, davvero difficile», culminato con un esaurimento durante il Janet World Tour. Proprio durante la scrittura di The Velvet Rope l’artista si ritrova a combattere i propri mostri: depressione, dismorfia, bulimia, anoressia, oltre a una serie di traumi sviluppati in giovane età.
Per Janet, The Velvet Rope diventa qualcosa di più di un confessionale, una vera e propria seduta a cuore aperto di terapia: «Cantare queste canzoni è come scavare alla ricerca del dolore che ho seppellito molto tempo fa. È come se avessi fatto terapia», racconterà a Rolling Stone US nel 1998. In un’epoca di tabù (salute mentale, istanze LGBT+, emancipazione femminile), Janet Jackson non ha paura di mettere in gioco il proprio successo costruendo un album capace di onorare, innovare, innalzare la figura della donna (e della donna afroamericana), e non solo. Il disco infatti non ha timore di affrontare la sessualità: Free Xone parla di amore gay, lesbico e bisessuale combattendo l’omofobia al coro “One rule, no rules”, la cover di Tonight’s the Night di Rod Stewart è declinata al femminile diventando così una celebrazione del sesso lesbico, Together Again è dedicata ad un amico scomparso a causa dell’AIDS, Rope Burn è un sensuale viaggio BDSM, mentre What About parla di relazioni violente e abusi domestici. Se il pop oggi ha aperto il suo vocabolario a questo linguaggio il merito va, in gran parte, a Janet Jackson.
Dal lato prettamente più musicale, The Velvet Rope è un disco influente per così tanti generi da aver ispirato gran parte dell’R&B e del pop contemporaneo. La produzione del disco è affidata alla stessa Jackson con Jimmy Jam e Terry Lewis (i Pharrell di quei tempi, come scrisse il Guardian), riproponendo quindi il fortunato team che da Control (1986) ha fatto le fortune di Janet. Per l’occasione, alla scrittura si aggiunge il marito dell’artista, René Elizondo Jr. Le 22 tracce dell’album mostrano una schizofrenica diversità (citando un commento di How to Dress Well), muovendosi senza timore dal dance pop all’abstract pop, dal neo soul al trip hop, dall’elettronica sofisticata alle sferzate jazzy. L’album aprirà la strada ad artiste come Rihanna e Beyoncé, ma anche a The Weeknd e FKA twigs, Kelela e TLC, SZA e qualsiasi altra artista urban fino a spingerci a Kanye West, Tyler, the Creator, J Dilla, Frank Ocean. Janet Jackson ha aperto così tante porte che è difficile immaginare che qualcuno non ci sia passato attraverso. Per intenderci, Empty, uno dei brani più particolari di tutto il lotto, sembra un incontro magico tra Rosalía e Four Tet, mentre Free Xone è così futuristica nel testo, nella produzione, nell’uso della voce da non aver rivali ancora oggi.
Dall’uscita di The Velvet Rope sono passati 25 anni esatti ma, ancora oggi, suona dannatamente contemporaneo, nel suono, nelle idee, nelle parole scelte. Sarà una dichiarazione molto forte, ma Janet è per molte e differenti ragioni (musicali, sociali, identitarie) la migliore artista della famiglia Jackson.