È strano leggere un’autobiografia che si chiude con l’autore che racconta della conquista di una maggiore serenità, ma che alla pagina successiva – aggiunta all’ultimo – si ritrova costretto a parlare della morte improvvisa della figlia 24enne e a scrivere: «What a fucking game». Se poi la storia narrata è quella di Tricky e inizia con un’altra morte – quella della madre Maxine, toltasi la vita quando lui aveva appena 4 anni – l’effetto è ancora più sconcertante. Sono due eventi, la perdita della mamma e quella della figlia Mina Mazy – avuta dalla cantante Martina Topley-Bird e spentasi lo scorso maggio – che conferiscono al memoir Hell Is Round The Corner, appena uscito per ora solo in inglese per la casa editrice Blink, una cornice lugubre inattesa persino per lo stesso protagonista. Nel mezzo scorre la vita di un artista oggi 51enne considerato il pioniere del trip hop, che ha raggiunto l’apice del successo a metà anni Novanta con l’indimenticato album Maxinquaye e che da allora continua a incidere dischi. Un musicista e un innovatore cresciuto in una famiglia multietnica nel «ghetto bianco» di Knowle West, a Bristol, in un contesto urbano povero e desolato, dove ai suoi tempi imboccare la strada della delinquenza era la normalità. È da qui che il resoconto intimo ed esistenziale di Adrian Thaws alias Tricky prende il via, con la ricostruzione del suo peculiare percorso di adolescente coinvolto in furti, piccole attività di spaccio e simili, che a un certo punto ha scovato nella musica un rifugio e uno strumento di espressione che lo ha condotto verso direzioni inaspettate.
Nelle quasi 350 pagine che vedono la sua voce avvicendarsi con le testimonianze di familiari, amici e addetti ai lavori a lui vicini i passaggi più forti e significativi riguardano, da un lato, alcune esperienze personali che hanno segnato l’esistenza di Tricky, dall’altro la rivendicazione di un’attitudine da artista underground, inadatto a logiche e meccanismi insiti nel mainstream o intrinsecamente legati alla fama e al successo. Chi ha più di 35 anni ricorderà quando il nostro vide accendersi i riflettori su di sé dopo le prime sperimentazioni sonore con i Wild Bunch, collettivo da cui sarebbero sorti quei Massive Attack con cui ha collaborato agli esordi. Poi, nel 1995, fu la volta di Maxinquaye, debutto solista impreziosito dalla voce della succitata Topley-Bird e tuttora ritenuto il suo capolavoro. Non tutti conoscono l’antefatto: «Una vita criminale – scrive Tricky -. Non ero quasi mai a scuola. Non facevo che uscire, fumare erba, mettermi nei guai con la polizia». E qui si susseguono le immagini di un cugino che, sfruttando la sua gracilità, lo infilava nelle finestrelle dei bagni degli stabili più disparati per poi fargli aprire la porta in modo da poter entrare a rubare. E ancora, i ricordi dei furti di auto messi a punto con il compare Nicky Tippett, delle risse, dei taccheggi, di una serie di acquisti con banconote contraffatte che a 17 anni lo spedì dietro alle sbarre. Ma «non fu uno shock andare in galera, era parte del viaggio», commenta Tricky facendo intuire, qui come in altri punti dell’autobiografia, di sapere bene quanto peso abbia avuto il contesto sociale d’origine sulla sua formazione e di voler evitare atteggiamenti giudicanti nei confronti di chi da quel tipo di contesto non riesce a scappare. «I miei zii erano hardcore ed è solo perché non sono un duro che non ho fatto la loro fine. Li ammiravo davvero per come si erano fatti un nome a Manchester e a Bristol. Se fossi stato un tipo più tosto avrei sicuramente scelto quella strada, perché se ammiri qualcuno desideri emularlo».
È andata diversamente, la scoperta della musica ha sparigliato le carte. Merito della voce di Billie Holiday che usciva dal vecchio registratore a cassette della nonna. Degli Specials, con cui Tricky s’identificò subito per il carattere multiculturale della band e le doti più espressive che tecniche di Terry Hall. Merito anche dei sound system reggae come il Saxon Studio International, del primo hip hop di Roxanne Shanté, Eric B. & Rakim e Public Enemy, della stessa Martina Topley-Bird, che oltre a dargli quella figlia che oggi non c’è più lo ha fatto avvicinare al rock di Smashing Pumpkins e PJ Harvey. E pure dei club di Bristol in cui un Tricky ancora minorenne s’intrufolava con i cugini Mark e Michelle e dei rave in spazi occupati che cominciò a frequentare quando si trasferì a Londra diventando di fatto uno squatter. Nel frattempo, sin da bambino, il nostro aveva scritto testi su testi: fu quando si rese conto che benché non sapesse cantare poteva rapparli che la sua carriera ebbe inizio. Il punto è che il termine «carriera» non gli piacerebbe. È questo l’altro filo del discorso che attraversa Hell Is Round The Corner: non importa che Tricky parli dei Massive Attack o di altri colleghi che hanno conquistato le classifiche e un successo duraturo, ciò che gli viene spontaneo notare a ogni occasione è che lui, a differenza di altri, non ha mai avuto una mentalità orientata al business, non ha mai voluto fare soldi, non ha mai sognato la fama. «Non sono mai stato interessato a trasformarmi nel ragazzo più ricco del pianeta. Il mio obiettivo era rivoluzionare la musica, innovarla. Trovare un suono mai sentito prima». È la sua prospettiva e la ribadisce più volte, talvolta apparendo sin troppo radicale e ingeneroso, talaltra riconoscendo lui stesso che il vero problema alla base del suo rapporto controverso con la popolarità è la timidezza.
Proprio quella timidezza – dichiara Tricky – è alla base del suo rap soft, cupo e sussurrato, dei suoi concerti al buio, ma anche del sentimento di disagio che lo coglie quando si trova al centro dell’attenzione. Così eccolo riportare alla mente l’imbarazzo provato nel 2011, quando, invitato a duettare con Beyoncé al Festival di Glastonbury, si ritrovò sul palco paralizzato e senza parole. Letteralmente senza parole, con Queen B intenta a ballargli intorno e il marito Jay-Z in platea a godersi la scena. Lì per lì asserì che il microfono si era rotto, nel libro (come aveva già fatto negli anni scorsi) ammette la débâcle con dispiacere. Allo stesso modo confessa di aver saltato un incontro con Madonna perché in hangover e soprattutto confida di essersi pentito di non aver mai risposto a una lettera di stima da parte di David Bowie, che gli inviò anche una copia dei quaderni di poesie e disegni di Jean-Michel Basquiat e che su di lui scrisse un articolo per il magazine Q. Ma va detto che l’amarezza che qua e là emerge non inficia la convinzione con cui l’ex «ghetto boy» ripete di continuo di non sentirsi parte dell’industria discografica, di essere un outsider e uno sperimentatore e di voler rimanere tale, di non volere occhi puntati su di sé, persino di far fatica a interagire con i fan. «Perdere l’anonimato è la cosa peggiore che possa accaderti», sostiene a proposito del suo periodo di maggiore notorietà, e poche righe più in là aggiunge che coloro che bramano di conoscere le persone famose in realtà «vogliono succhiargli l’energia». A tratti si ha l’impressione che la sua vulnerabilità e il suo background gli abbiano impedito di abbracciare una visione più morbida, meno dicotomica e polarizzata della realtà, e che questo non l’abbia aiutato nell’affrontare certi momenti di depressione cui nell’autobiografia accenna soltanto.
«Il successo non ha niente a che vedere con la felicità», è un altro assioma di cui si nutre una narrazione in cui trova ampio spazio anche il tema dei soldi. Chi non ha vissuto gli anni 90 dovrebbe leggersi l’autobiografia di Tricky anche solo per capire quanti ne circolassero all’epoca nell’industria discografica. «Industry money», li chiama lui, che non nasconde di avere approfittato dei fiumi di denaro messi a sua disposizione della Island Records, l’etichetta con cui ha pubblicato cinque dischi tra il ’95 e il ’99, per concedersi vizi e lussi di ogni genere. Funzionava così, 20 anni fa, s’investiva senza badare a spese e mr. Thaws ha partecipato al gioco a modo suo: senza attribuire autentico valore alla ricchezza, a suo agio in un albergo a 4 stelle del centro come in un seminterrato di periferia, ma con l’idea chiara in testa di non voler fare della musica un lavoro routinario e competitivo. «È diventato tutto una gara?», si chiede parlando di quando decise di accantonare l’esperienza con i Massive Attack. Ingenuo? Eccessivo? La si può vedere da diverse angolazioni, di certo pure lui ha guadagnato una grossa mole di denaro e ne ha sperperato moltissimo: in Hell Is Round The Corner racconta di aver intascato 90mila dollari in un giorno per due remix realizzati per Yoko Ono e Stevie Wonder in poche ore prendendo la musica della prima e mettendola sotto la voce del secondo e viceversa. Rivela di aver speso fino a 200 mila dollari di taxi in un anno, di aver vissuto per mesi in albergo completamente spesato da chi lo aveva sotto contratto, di essersi comprato una BMW senza nemmeno avere la patente. Ricorda di una volta in cui acquistò una sedia da cinquemila sterline solo per dimostrare alla commessa di un negozio che lo guardava con sospetto di poterlo fare. Poi i tempi sono cambiati e si sono presentate le magagne, in primis un enorme debito recentemente ripagato grazie al sostegno del suo attuale manager Horst Weidenmüller, fondatore della label tedesca !K7.
«Poiché non venivo dal denaro non ero in grado di gestirlo», afferma Tricky. Lungo il tragitto ci sono stati una relazione con Björk («non prova paura», scrive di lei), un paio di attacchi di asma che gli hanno fatto rischiare la morte, problemi psicologici non specificati attribuiti qua e là alla candida e alla diffusione sul mercato della skunk al posto della sensimilla giamaicana (e che parliamo di un consumatore di marijuana non è un mistero). C’è stato anche il rifiuto di produrre l’album Pop degli U2: «Non stavano cercando di migliorarsi, gli premeva solo inseguire le novità, la moda. Avrei potuto fare qualsiasi merda e gli sarebbe piaciuta». Tradotto: Tricky non è uno che le manda a dire, non ha filtri. Parla senza peli sulla lingua anche di una seconda figlia, Marie, che non sapeva di avere e che ha incontrato per la prima volta quando lei era già all’università, così come del fatto di sentirsi a volte il fantasma di sua madre e di armi tenute sotto al letto nel periodo in cui ha vissuto a Los Angeles. Perché in tutto questo ha fatto il giro del mondo, abitando in California, a New York, a Parigi, nel New Jersey. Fino ad approdare a Berlino, dove risiede oggi. «Sto da solo la maggior parte del tempo e sono felice così. Cucino, mi alleno (è da sempre un grande appassionato di arti marziali e sport da combattimento; nda), mi siedo fuori dai locali, osservo la gente. Amo anche camminare». Queste le sue parole nelle ultime pagine di Rock Is Round The Corner, che ha scritto a quattro mani con il giornalista Andrew Perry. Da un giorno all’altro potrebbe decidere di andarsene altrove, aggiunge sottolineando il suo spirito nomade prima di precisare che dopo 13 album ha ancora voglia di fare musica in libertà, di produrre giovani talenti con la sua etichetta False Idols perché «è anche questo che un musicista dovrebbe fare», di sentirsi più a suo agio con se stesso e con gli errori del passato. Dopodiché volti pagina ed eccoti davanti a un breve capitolo dedicato alla figlia persa da poco, Mina Mazy Topley-Bird. Un epilogo che unito con alcune recenti dichiarazioni di Tricky stesso – «Mi sento come se stessi perdendo la testa, nemmeno la musica suona come prima», ha detto al Guardian appena un mese fa – ribalta inesorabilmente il senso della lettura lasciando disorientati, tristi e con un’unica idea in testa: è proprio vero che su questa terra «l’inferno è dietro l’angolo».