Ferrara è terra di confine, bastarda, orfana del passato estense in cui era il centro di qualcosa, oggi alla periferia di tutto. Dell’Emilia, della Romagna, e pure del Veneto. È una parte per il tutto dell’Italia, una gloriosa penisola sopravvissuta a se stessa. La Lega ha proposto di inserire nelle attività didattiche finalizzate alla conoscenza dei valori del territorio e delle origini, per le scuole di ogni ordine e grado, la canzone di Secondo Casadei Romagna mia. A me pare che un altro valzer da balera sia più adatto ad evocare i nostri fasti passati e le nostre imperiture tradizioni, nonché la nostra odierna resilienza nazionale e regionale. Si chiama La maiala.
Mio padre suonava con il suo complessino nelle peggiori sale da ballo della bassa. A volte, per scaldare il palco immerso nelle brume padane, ai suoi lati erano posizionate due grosse stufe di ghisa rovente, ogni tanto il bassista ne sfiorava una col gomito e partiva una stecca, più raramente un acuto in falsetto. Capitava che, nel bel mezzo di una canzone, i proprietari delle balere strappassero dalle mani del cantante il microfono e urlassero: «E stasera c’è anche la pizzzzza!» Il pubblico gongolava, con addosso gli abiti pastellati e consunti della comunione, della cresima, del matrimonio, a seconda dell’età e del più o meno felice sviluppo degli arti.
Mio padre fremeva per suonare i Beatles e i Rolling Stones. Ma regolarmente qualche matrona, con i filamenti di mozzarella che pendevano ancora dal mento, si avvicinava e chiedeva una lagna di Claudio Villa. «No» diceva mio papà o qualche altro componente del complessino. Quella insisteva e, dopo il quarto no, dopo la quinta insistenza, partiva la canzone di protesta, la melodia della resilienza: La maiala.
Che comincia così, con la semplicità tipica dell’arte immortale:
La maiala
La maiala
La maiala l’ha fatt’i maiai
Bianchi, rossi e tutti uguai
La maiala l’ha fatt’i maiai
Trattandosi di un ¾, il nobile ritmo del valzer, dopo ogni “la maiala” dovete immaginarvi due battute vuote – ta-ta – che lasciano il tempo all’ascoltatore di rappresentarsi l’animale in questione, simbolo del territorio e delle tradizioni: versatile, astuto, capace di produrre capolavori autoctoni come il cotechino e la salama da sugo.
I versi successivi sono una celebrazione della fertilità, dell’abbondanza, della famiglia. Valori che lo stile di vita contemporaneo sta cancellando a colpi di Erasmus e smart-working. Da notare, per soprammercato, la democraticità connaturata alla nostra Terra: i maiai sono sì bianchi, sì rossi, ma in particolare uguai. Siamo tutti fratelli, la porca non ha figliastri.
Seconda strofa:
La busgatta
La busgatta
La busgatta l’ha fatt’i bushin
Bianchi, rossi e rizzulìn
La busgatta l’ha fatt’i busghin
Il busgatto è maiale in dialetto ferrarese. L’etimologia è incerta, che io sappia nelle province circostanti si dice in altro modo (in bolognese ninén, per esempio), ma si può almanaccare: busgàtt ha a che fare con i bus, i buchi. L’animale che rimesta nel suolo, che si crogiola nell’origine, che esprime nel suo grufolare un attaccamento atavico, tellurico, al passato che lo generò. Questa seconda strofa è allora un inno a quella maniera di intendere la vita che spesso, troppo semplicisticamente, viene definita sovranismo.
Ma…la terza e la quarta strofa, com’è consueto nelle opere che rientrano nel canone dei Classici, riportano la canzone a uno stato di apollineo equilibrio. La nostra terra è ospitale, a patto che ne vengano rispettate le regole, aperta al mondo e alle altre culture. Ecco allora, dopo la celebrazione delle tradizioni locali, quella del cosmopolitismo.
Terza strofa:
La porcioska
La porcioska
La porcioska l’ha fatt’i porcioski
Bianchi, rossi e ciuciatoski
La porcioska l’ha fatt i porcioski
Qui è evidente il riferimento alle tradizioni slave, ai Paesi che un tempo prosperavano al di là della Cortina di Ferro, Paesi di cui l’Emilia, e in particolare Ferrara, sono stati per decenni un’orgogliosa propaggine. Ora l’Europa è quasi unita, almeno nelle nostre anime redente dall’ecumenismo liberale e il futuro, che forse ci appare ancora nebuloso e indefinito, è ben riassunto dall’ultima parola del quarto verso, allo stesso tempo criptica ed evocativa: ciuciatoski.
Quarta (permettetemi un gioco di parola sbarazzino, che dà conto dello spirito goliardico della nostra spiritosa Terra) scrofa:
Ohn die scrofen
Ohn die scrofen
Ohn die scrofen tartinen scrofinen
Bianchen, rossen e rizzulinen
Ohn die scrofen tartinen scrofinen
Se a prima vista grammatica e sintassi possono apparire zoppicanti bisogna però superare i cavilli linguistici con il salto a occhi chiusi della fantasia. Si abbozza qui l’esperanto paneuropeo, questi versi sono una mano tesa alla Germania e alle sue pretese egemoniche: venite da noi, magari in inverno come ai bei tempi dell’Operazione Barbarossa, magari di notte, magari disarmati, e celebreremo insieme le meraviglie della musica, della compagnia, della festa, del verro. Vi faremo vedere noi – certo, lo decideremo insieme in totale armonia – se è meglio il würstel o il cotechino.