Lo streaming sta uccidendo il rock: che cosa vogliamo fare? | Rolling Stone Italia
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Lo streaming sta uccidendo il rock: che cosa vogliamo fare?

Mentre gli artisti annaspano perché non vengono più remunerati e chi usa lo streaming ascolta altre musiche, le conventicole fighette puntano il dito contro chi cerca fonti alternative di guadagno. Come se ne esce?

Lo streaming sta uccidendo il rock: che cosa vogliamo fare?

Cristiano Godano ritratto da Guido Harari

Il mio precedente intervento, il terzo per questo Elzevirus, chiudeva garantendo che nel successivo (questo di ora) avrei parlato di ciò che non ero riuscito a dire in quello, e che era il vero motivo che mi aveva spinto a scrivere. E come mai non ero riuscito? Perché mi ero perso nello sviscerare gli aspetti che ne erano la premessa, e come al solito avevo constatato quanto gravemente mi manchi il dono della sintesi.

Ora vi farò sorridere: ciò che non ero riuscito a dire allora, e che ho scritto qualche giorno fa per voi, è ancora più lungo della già lunga premessa di allora. E non solo è molto lungo, ma una persona di mia fiducia a cui l’ho fatto leggere per avere un controllo su alcuni aspetti tecnici e evitare di divulgare inesattezze, mi ha detto che pare un report giornalistico più che lo slancio di un artista. E allora la risolvo così: ora ve ne faccio una sintesi (lo slancio dell’artista?). Arrivati al fondo, chi sarà desideroso di approfondire si beccherà la pappardella che ho preparato qualche giorno fa (il report giornalistico?). Vediamo dunque come va…

Ecco la sintesi, tarata sul fare musica in Italia ma, mutatis mutandis, valida ovunque.

Lo scopo che mi prefiggo con questo mio intervento è di “dimostrare” un’intuizione che mi sembra originale. Che sia esclusiva non lo spero neanche… Diciamo che io non l’ho mai letta da nessuna parte, e dunque, in un raffronto onesto fra me e me, è mia a tutti gli effetti: tanto mi basta. E questa intuizione è connessa con una mia frustrata sensazione, ovvero che Internet sia, anche e solo in minima parte, causa della forbice sociale che attanaglia l’umanità. Forbice sociale per la quale in quel terzo intervento mi ero profuso in parole che potessero far toccare con mano un problema tutt’altro che irrilevante e anzi ben connesso alle nostre contingenze, per quanto all’apparenza da esse lontano. Non riguarda solo la musica, ma sta per riguardare molti, molti altri lavori finora considerati sicuri (mi ero anche dato dell’eventuale luddista, giusto per mettere le mani avanti nei riguardi degli ottimisti).

Una volta fatto ciò mi sforzavo di “dimostrare” che in Internet la ricchezza (per meglio dire: la remunerazione) è appannaggio di pochi, e che per tutti gli altri è sostanzialmente un raggiro aggratis, in un rapporto 10 a 90, forse 5 a 95. (Cioè Internet, per me, semplicemente ci sta fottendo poco per volta e sempre più, nonostante sia prima di tutto un fantastico prodigio tecnologico). E credo di averlo saputo fare con esempi stringenti, probabilmente non inconfutabili, di certo non peregrini.

Alla fine di tutto ciò volevo arrivare a insinuare, paradigmaticamente, che lo stesso sta accadendo nel mondo della musica, e questa volta non in minima parte, ma completamente grazie a Internet. Ovvero che anche nel mondo della musica c’è una forbice (grazie alle piattaforme, che sono un “tool” per definizione internettiano), per la quale pochi si spartiscono il 90% della ricchezza a disposizione, e molti raccolgono le briciole facendo la fame. In totale assenza, anche qui, della classe mediana.

Quindi lo schema da riempire come mi sono prefisso è il seguente: 1) esiste una spaventosa forbice sociale; 2) questa forbice sociale si riverbera in modo lampante in Internet (e/ma penso che Internet stesso ne sia in parte la causa); 3) grazie a Internet questa forbice si ripresenta pari-pari nella musica. I punti 1 e 2 sono stati sviscerati la scorsa volta. Il punto 3 verrà riassunto nella sintesi che sta per arrivare e verrà sviscerato nel malloppone a seguire.

La mia sintesi inizia (finalmente) così: sapete quanto vale un click su Spotify quando decidete di ascoltare un pezzo qualsiasi? Quando dunque, consapevolmente o meno, remunerate il musicista/gruppo che vi sta donando qualche minuto denso di emozione o qualche secondo di distratta ebbrezza? Posto che, parrà strano, nessuno lo sa con precisione, neanche fra gli addetti ai lavori, una media verosimile dei vari pareri si assesta su un bel 0,005 euro lordi (conosco un discografico che pensa sia piuttosto 0,0005). So che state cercando di rileggere per vedere se vi siete confusi… Ve lo riscrivo: 0,005 euro lordi. (Un secondo ancora: se usate Spotify con le pubblicità, ovvero se non pagate l’abbonamento, la cifra è minore, e si assesta sui 0,003 lordi).

Dunque possiamo provare a divertirci con le moltiplicazioni. Tre semplici esempi. Cifre a caso. Quanto valgono 50.000 streaming? 50.000 per 0,005 fa 250 euro lordi. Questa cifra è da spartire con la casa discografica: in genere l’80% va a lei e il 20% va all’artista/band. Quindi in questo caso alla band vanno 50 euro lordi. Va da sé che se il gruppo è di 4 elementi e divide democraticamente gli introiti, a testa ogni singolo elemento guadagna da Spotify 12,5 euro. Al lordo delle tasse, sia mai…

Proviamo con un un milione di streaming. 1.000.000 per 0,005 fa 5000 euro lordi, il 20% fa 1000 euro lordi. Diviso 4 fa 250 euro lordi a testa. Cioè: tu, pinco pallo, arrivi col tuo gruppo di quattro elementi a fare 1 milione di streaming (mica cazzate) e vieni ricompensato con 250 euro lordi. Not bad. Infine 100 milioni di streaming: fatti tutti i calcoli fa 25.000 euro lordi a cranio. 100 milioni di streaming ho scritto: quasi il doppio della popolazione italiana. Guadagno: una bella Golf Volkswagen, o giù di lì.

Ecco: in fondo la mia sintesi potrebbe terminare qua, e lo slancio dell’artista potrebbe finire con la solita solfa che già sapete: ovvero che si campa con la musica live (e si integra se si può. Chi sa immaginare quale può essere di gran lunga il miglior rimedio per un musicista che abbia visibilità ma che non sia mainstream, perché se sei mainstream hai buone probabilità di non aver bisogno di una integrazione, al netto dell’ingordigia? Dai che non è difficile…).

Ma ci sono cose a complemento che ritengo utili per inquadrare molto, ma molto meglio la situazione… E vi annuncio dunque che… ora arriva il resto. La pappardella. Il malloppone. Il prosieguo.

Se quello che avete letto fin qua vi ha stufato, è inutile andare avanti. Se lo ritenete sufficiente per aver appreso qualcosa in più nella vita, una come qualsiasi altra, potete fermarvi qua facendone tesoro se siete amanti della musica. Se vi ha scosso o particolarmente incuriosito vi invito invece a venirmi ancora dietro: avrete modo di inquadrare al meglio il vostro shock e la vostra curiosità. E se infine queste cose già le sapevate ma pensate che non ve le ho raccontate in modo banale… continuate a leggermi. Non dovreste pentirvene, al netto della mia logorrea.

Ecco dunque il resto… È lunghetto: siete avvisati. Vi posso ancora dire che nelle parole che seguiranno mi prefiggo di “dimostrare” cose di questo tipo: 1) il mercato della musica è nelle mani, anzi: nei polpastrelli, di tutti coloro che abitualmente passano la più parte del loro tempo connessi ascoltando musica in streaming. Possiamo insinuare che la più parte siano ragazzi-ragazzini? Credo che possiamo; 2) alla più parte dei ragazzini-ragazzini certe musiche non interessano (con “certe musiche” intendo ovviamente il rock in primis, ma anche tutto ciò che spiegherò); 3) che il mercato della musica è quasi completamente basato sullo streaming, e che tutte le altre forme sono spietatamente residuali; 4) che le case discografiche sono ormai a loro volta quasi completamente interessate al solo streaming, perché in quello hanno finalmente trovato il loro modello di business dopo qualche anno di sbigottimento; 5) che in questo modello di business certe musiche non sono più contemplate, e dunque destinate a svanire restando appannaggio di un eroismo commovente; 6) che Internet in buona sostanza ci sta lentamente fottendo (ma nel mio Elzevirus precedente mi sono speso molto per far capire che ritengo che il problema riguardi quasi tutti, mica solo noi musicisti…); 7) che la musica realmente remunerata è sempre più un fatto di marketing e comunicazione, e non un gesto più o meno artistico; quest’ultimo, sostanzialmente, non è più remunerato, se non in modo ridicolo (che esistano eccezioni che confermano la regola è ovvio); 8) che fino a che certe musiche non saranno di gradimento dei ragazzini e fino a che il sistema rimarrà quello che è ora (ovvero basato sulla compulsione di chi sta in rete 10 ore al giorno e con le stesse percentuali e gli stessi moltiplicatori), continueranno a non rimanere remunerate, e suonate sempre più da inguaribili eroi sognatori.

Se tutto ciò vi colpirà, e se quanto meno vi sforzerete di capire come fare a essere empatici e fattivamente comprensivi (ovvero qualcosa in più che non una banale e forse ovvia commiserazione a parole con qualche lacrimuccia di circostanza), avrò la mia piccola soddisfazione. Empatia e comprensione, il minimo sindacale.

Procedo.

Intanto questa sorta di prologo: ottobre 2019. In pieno tour dei Marlene postiamo sui nostri social una foto in cui ringraziamo Volvo per averci prestato un mezzo (lo riscrivo: prestato). Anziché fare product placement furbetto, nascondendo quasi più che ostentando il mezzo in questione, facciamo una foto esplicita, tutti addossati a lei (la macchina): noi tutti vestiti di nero, lei tutta rosso fiammante. Un colpo d’occhio d’effetto. Accompagniamo la foto con parole che, ringraziando la casa automobilistica, inducano a far capire che anziché fare i furbetti ci abbiamo giocato su, confidando in un po’ di normale sense of humor. Risultato: molti insulti, tanti risolini saccenti a decretare per l’ennesima volta la nostra triste fine (c’è poco al mondo che mi dia più fastidio di quel “che tristezza” elargito con pietismo caustico) e tanta idiozia (la più eclatante che ricordi è questa: “con questo post il rock oggi muore”). Ecco: questa visione idealizzata del rock purtroppo non ha più ragione d’essere, perché il rock annaspa (prima di tutto perché non più remunerato, poi, molto poi, semmai, per crisi creativa), e questo altezzoso sussiego del sedicente amante di una certa cultura (alternative, dico per comodità), è nocivo sia per chi lo deve subire, come le band della mia generazione a cui non è concesso fare quello che alle nuove è concesso (Marlene a Sanremo: boati di disapprovazione dei fan; Motta e Zen Circus a Sanremo: i fan esultano e gareggiano con loro per vincere), sia per il rock in sé, che per non languire avrebbe bisogno di sostegno e non di ostracismo o insensibilità. È un’autoreferenzialità fuori tempo massimo, quella che alimenta la vitalità delle conventicole fighette o oltranziste, è inutile, dannosa. La comprendo, arrivo da lì, ma ormai è quasi del tutto fuori dalla storia.

Torniamo alle cifre… Mancano degli ingredienti. Intanto questo: il risultato che avete ottenuto dalle moltiplicazioni (25.000, 1 milione, 100 milioni per 0,005) va poi aggiunto ai risultati ottenuti con le altre piattaforme. Considerate questa minuscola cifra (0,005) come una media plausibile di tutte le cifre rappresentative di ogni piattaforma, perché ogni piattaforma più o meno remunera in questo modo, diciamo tra lo 0,003 e lo 0,008, tanto per darvi un intervallo orientativo… Evidentemente si tratta di una media ben calibrata, un po’ come le tariffe telefoniche, che per quanto siano apparentemente innumerevoli, gira e rigira sono tutte piuttosto simili fra di loro.. Detto ciò dubito che, ad esempio da iTunes, si possa sperare in una performance importante: ormai la gente si prende la sua musica a 9,99 euro al mese (ops, in Italia non esattamente…). Chi compra ancora musica da iTunes? Non vedo molte mani alzate…

E poi altri ingredienti: ci sono le edizioni ad esempio, e c’è la Siae, ma è tutto proporzionato al potenziale dell’artista (la Siae remunera sulla base dei dischi che hai venduto, e a proposito dei dischi venduti vi posso dire questo: quanto si guadagna da una copia venduta di disco di 10 canzoni? Circa 1 euro, che in proporzione è molto più dello 0,005 a canzone delle piattaforme, perché se moltiplicate 1000 per 1 fa 1000, se lo moltiplicate per 0,005 per 10 canzoni fa 50: capito il concetto? Il problema è: quanti dischi in media si vendono oggidì? Tolto il mainstream quando fa un discone super cagato, direi una media di 2000-2500 copie a dir tanto. I vinili? Un euro anche lì, ma se se ne vendono 500 in genere è un ottimo risultato. Le moltiplicazioni per 1 euro le potete fare voi).

Si evincono poi tante cose. La prima che mi viene in mente è che 100 milioni di dischi fisici venduti (cifra che ovviamente non fa più nessuno al mondo) genererebbero una fortuna mostruosa che potete facilmente dedurre coi dati che vi ho appena dato (chi ha venduto cifre simili nel mondo? Boh, non ho voglia di andare a cercare, ma immagino calibri tipo Michael Jackson e simili). Ora: 100 milioni di streaming generano invece quello che vi ho detto, cioè molto, molto, molto, molto meno. C’è da precisare però: intanto che 100 milioni paradossalmente non sono neanche poi una cifra così enorme (pensate: uno come Salmo ha una etichetta che si chiama Machete, e una sua compilation – dice lui sul suo IG e non vedo perché dubitarne – ha fatto 350 milioni di streaming), e poi che se sei uno dal potenziale di 100 milioni di streaming hai un tale potere di attirare denaro (tra brand che ti cercano per darti soldi – mica prestare un mezzo per un tour – e cachet esorbitanti per qualsiasi tua comparsata, fosse anche mettere la faccia in una festa di vippame mondano) che quei 25.000 euro vengono integrati da tanto altro.

Ecco, direte voi, vedi che tutte queste cose messe insieme fanno tornare i conti del business? No, dico io: perché l’80% dei musicisti del pianeta non ne fa neanche 20 (cifre a caso) di milioni di streaming (semmai in tutta una carriera: in tal caso magari una qualche percentuale di quegli 80% a 20 milioni in un carriera ci arriva… ma potete sempre tornare a fare due calcoli della serva e moltiplicare 20 milioni per 0,005 euro lordi. E poi: in una carriera vuol dire che non avrai di certo raggiunto quel potenziale di attrazione di cui ho parlato poco sopra, che funziona se la fotografia che illustra il tuo status di musicista parla di un potenziale nel presente, non diluito in un tempo dilatato di anni. Quando prima parlavo di 100 milioni di streaming mi riferivo a un singolo pezzo nell’arco di poche settimane, non a una somma di risultati ottenuti in un carriera).

E cosa ti porta dunque a fare a 100 milioni di streaming per un pezzo? (Ecco, tolto il peso dei numeri fino a qua, ora il discorso si fa pregnante. Seguitemi). La musica che funziona, quella mainstream. Quella che riesce a occupare il tempo dei ragazzini, disponibili a sprecarne a iosa per “qualche” click da pollice compulsivo sui loro cellulari (la scorsa volta vi dicevo che i giganti della rete hanno tutte le convenienze a far si che l’umanità stia costantemente con la testa nel suo cellulare. Ebbene: anche le piattaforme hanno di certe convenienze). E in definitiva cosa si evince? Che il mercato lo fanno i pollici dei ragazzini. Laddove una volta si andava in un negozio a comprare un disco, ed era per molti una scelta ponderata e frutto di qualche tipo di pensiero intorno a un oggetto che pagavi e che ti volevi portare a casa, ora una semplice digitazione sul cellulare, in genere compulsiva e del tutto priva di immaginifico, determina le sorti di cosa va e di cosa annaspa, in totale annientamento della situazione mediana. Ecco dimostrata, faccio per dire, la mia idea che anche nella musica vi sia la ormai famosa forbice sociale. Thank you Internet!

E in fondo cos’altro è il lavoro di un discografico al giorno d’oggi se non cercare di capire come fare a attrarre l’attenzione dei ragazzi per un semplice click moltiplicato milioni? E secondo voi andranno ancora, i discografici, alla ricerca di gruppi poco attraenti per i ragazzini? Non è che cercheranno, in verità, solo quelli attraenti per i ragazzini? (Se fanno boom con lo streaming, d’altronde, per le discografiche vengono anche i costi di distribuzione del fisico, perché il digitale non ha di questi problemi: che costo ha “trasportare” un file? Vi pare possa essere lo stesso di quello sostenuto per distribuire ai negozi le copie fisiche in giro per l’Italia? Negozi? Chi ha detto negozi? Quanti ce ne sono ancora di negozi? Sono domande retoriche). Se un gruppo rock fa in media 2 o 300 mila click sulle piattaforme (cifre a caso, più o meno verosimili in media), e se vende 2 o 3000 copie dei dischi (da distribuire fisicamente in tutti i punti vendita d’Italia), quale interesse può avere una etichetta ad averci ancora a che fare, se per contro è pieno di giovani rapper e di it-pop cloni in grado di fomentare i polpastrelli dei giovani? Forse non lo sapevate, ma le classifiche di vendita ufficiali ora contemplano anche lo streaming, ed è per questo che nei primi posti si troveranno sempre e solo più certe cose e non altre (fatevi un giro nelle chart di oggi, giorno a caso, e vedete un po’ chi c’è… E notate quanti featuring… Avete mai pensato come mai si fanno così tanti featuring? Ve lo dirò un’altra volta, e vi farò notare che nel rock i featuring non funzionano). Certa musica (rock e affini, o meglio: tutto ciò che non è mainstream) a queste condizioni non è destinata a passarsela bene, anzi…

In condizioni normali di mercato ci sarebbe posto per tutti: a non essere avidi ci si accontenterebbe dei propri introiti, felici di vivere della propria musica senza patemi particolari e senza smanie voraci, e che i ricchi si arricchissero pure. Chi se ne fregherebbe? Solo gli invidiosi inaciditi. Ma se il mercato viene del tutto rivoluzionato dai nuovi parametri, quelli che vi ho appena snocciolato, o stai dalla parte ricca della forbice (e fai dunque musica mainstream, detto più in senso quantitativo che qualitativo), o ti ritrovi in quella povera, semplicemente non remunerato (e però sempre severamente giudicato e messo sotto fastidiosissima pressione dal pubblico appassionato, pronto a scagliarsi contro di te se una casa automobilistica ti presta una macchina per fare un tour permettendoti, semplicemente, di evitarti le spese per l’affitto di un mezzo).

Quindi procediamo verso la conclusione, sempre contando sulla vostra disponibilità a soppesare quanto scritto (io vi ho avvisati: considero questi rudimenti preziosi. Sta a voi elaborarli con un minimo di riflessività).

Il rock (e tutto ciò che non è mainstream) non è nella testa e nelle dita dei ragazzini. Non lo è in nessuna delle sue forme: popolare o underground che sia. Dunque sulle piattaforme non è, semplicemente, remunerato. Perché non potrà mai arrivare a certe cifre di streaming, che garantiscono comunque ricavi apparentemente ridicoli (25.000 euro lordi per un risultato straordinario di 100 milioni di streaming), ma che creano i presupposti per un allargamento esponenziale dell’indotto. Fino a che la remunerazione sulle piattaforme sarà di questo tipo, e fino a che il rock non tornerà nella testa dei ragazzini, il musicista rock languirà sbattendosi in tour complicati in un Paese come l’Italia in cui i locali più che moltiplicarsi chiudono. Ecco qua la forbice: o tutto, o niente.

E allora la nuova musica com’è? Generalizzerò molto, ma in maniera verosimile: a parte manipoli di eroi che ancora fanno rock e affini (sia i vecchietti come noi, che grazie a un pubblico accumulato nel corso del tempo possono esistere, sia i giovanissimi che non abdicano a altre musiche ma che faticano mostruosamente a emergere per esistere), e a parte tutto il pop di successo non per ragazzini che può ancora contare sugli acquirenti inerziali del fisico grazie anche alle heavy rotation delle radio (che al giorno d’oggi contano molto meno delle playlist di Spotify), a parte tutto ciò il nuovo business è nelle playlist, e vince chi fa musica come se facesse marketing, imitando il suono che va per la maggiore e sperando di entrare in qualche playlist fortunata, che faccia moltiplicare la presenza del pezzo in decine e decine di altre playlist. Vince la musica che imita quello che va, non quella che cerca di differenziarsi per essere originale. E comunque vince quella che piace a chi passa le giornate a fare streaming. E se il moltiplicatore rimane 0,005 non si capisce come potrà continuare a esistere la musica non di massa… Scherzo! Certo che rimarrà: i musicisti sono degli eroici sognatori, e se gli si dà un palco e un van per suonare in giro per l’Italia sono disposti a dedicare la loro vita a questo sogno: per cui fin che ci saranno i sogni il rock (o affini) ci sarà. Ma saranno, appunto, sogni. Forse per molti questo è il vero senso dell’epopea rock: sudore, asfalto, sogni… Ma… beh, lasciatevi dire questo: il manager di Mick Jagger (va bene come icona rock?) raccontò in una intervista di come il suo pupillo, dopo i primi successi avuti con gli Stones, gli avesse detto «voglio fare un piano pensionistico, perché non so quanto durerà tutto ciò». I sognatori a 40-50 anni sbattono il culo per terra, perché la vita, prosaicamente, è fatta d’altro, checché ne dicesse Shakespeare.

Per salutarvi passo per una constatazione: sapete che noi italiani siamo uno dei popoli che in assoluto paga meno l’abbonamento di 9,90 miseri euro mensili per avere tutta la musica del mondo? Siamo il popolo che accetta le pubblicità pur di non pagare. Quale futuro per un gruppo rock italiano, che non può godere degli agi di essere inglese (propongo questa proporzione, mettendo in conto di inorridire qualche rosicone: Marlene Kuntz sta all’Italia come PJ Harvey sta all’Inghilterra; bene: a parità di risultati raggiunti fossimo inglesi saremmo rockstar mondiali, e gli agi che ne trarremmo li potete facilmente intuire), e che ha a che fare con un popolo poco propenso a devolvere 9,90 euro al mese, ma è per contro disponibile a massacrarti di insulti e risolini se non fai la musica come piace a lui e se ti fai prestare un’auto per fare i tour? Lascio la domanda sospesa…

E infine un invito a chi è interessato a me e ai Marlene: nonostante tutto è bene che prendiate l’abitudine di andare anche su Spotify ad ascoltarci (e non solo su YouTube, per dire): comprate i nostri dischi (in primis) e poi ascoltateci anche su Spotify, e metteteci in tutte le playlist del mondo. Servirà a poco, ma servirà. Grazie.

PS “Sì, ma i live…”, dice quello. Ne parliamo un’altra volta. Per l’intanto pensate al Covid, e ai danni alla categoria con il divieto di suonare live.

PS2: So che esiste un decreto/direttiva sul copyright europeo che dà ordine a ogni singolo Paese della comunità europea per recepirlo: credo sia in attesa di attuazione. A me sembra, da quel che mi pare di aver capito, che il tipo di premura che si pensa di adottare con quel decreto per mitigare gli effetti disastrosi di cui vi ho detto fin qua, proponga soluzioni del tutto inadatte al cambio radicale che servirebbe. Ma per come la vedo io il cambio radicale prevederebbe probabilmente un ribaltamento dell’essenza stessa di Internet, che con la sua assenza di regole, in realtà e per l’appunto, è da qualche decennio che ci sta semplicemente fottendo.