Non riusciamo più a non andare d’accordo? | Rolling Stone Italia
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Non riusciamo più a non andare d’accordo?

«Come tratti le persone con cui sei in disaccordo racconta tutto di te», dice Nicole Kidman in 'Bombshell'. Nelle 'bolle' odierne, invece, il dissenso viene eliminato come nei peggiori totalitarismi. E la democrazia è un’illusione

Non riusciamo più a non andare d’accordo?

Foto: Pieter on Unsplash

Da ragazzina, a ogni anniversario di matrimonio, chiedevo a mia madre quale fosse il segreto della longevità della relazione con mio padre. La risposta era sempre la stessa: «Quando vai d’accordo è tutto facile, il difficile consiste nel saper affrontare i momenti di disaccordo». La saggezza spicciola materna m’ha accompagnata poi per tutta la vita, e crescendo mi sono resa conto di quanto le sue parole non fossero limitabili alla sola sfera di coppia, bensì abbracciassero qualsiasi rapporto, di qualsiasi natura. Il grande malinteso che ci ha fregati, mettendoci sulla difensiva e facendoci arroccare sulle nostre posizioni, è proprio questo: si può essere comunque amici (o amanti, o colleghi senza un coltello tra i denti) nonostante a volte si abbiano opinioni divergenti su politica, società, sull’ultimo film di Tarantino, sull’avocado, su The New Pope o sui monologhi di Sanremo? Ovvio che sì, ma che stai farneticando, risponderebbe chiunque. Se in un’epoca pre-bolla sarei stata portata a dargli ragione, oggi mi viene più da pensare che chi ha peccato abbia l’obbligo di scagliare la prima pietra.

Chissà se siamo noi a scegliere la nostra bolla o se è la bolla a scegliere noi. Da qualunque punto di vista lo si guardi, quel microcosmo social in cui sguazziamo si è trasformato in una realtà parallela con le sue regole e i suoi crismi, e nulla ha apparentemente da invidiare alla realtà ‘vera’, quella in cui siamo obbligati a incappucciarci alle undici di sera per portar fuori il cane. La bolla è rassicurante: sono con i miei simili, la pensiamo più o meno allo stesso modo, niente può innervosirmi. La bolla è l’habitat naturale dei pigri: non ho lo sbattimento di dire la mia a ’sto giro, mi accodo a qualcun altro che tanto è uguale. La bolla unisce: stiamo lottando contro un nemico comune (non so di preciso quale, ogni bolla ne ha uno diverso), non è bellissimo condividere il medesimo campo di battaglia? Ciascuna bolla ha i suoi leader auto-proclamatisi, non ci sono elezioni e il suffragio è tutto tranne che universale: vengono dati pieni poteri a chi si dimostra in grado di orientare e agitare le masse con post assidui, chirurgici, (spesso) faziosi, (altrettanto spesso) debordanti di retorica, alimentati a suon di like che fungono da termometri per testare il calore del pubblico.

Foto: Sincerely Media on Unsplash



Nelle bolle finto-progressiste odierne, il dissenso viene eliminato come nei peggiori totalitarismi, la democrazia è un’illusione che non si conosce e non si ha il tempo o i mezzi per gestire. Si esalta dunque il simile e s’affossa il diverso in maniera ridicolmente paradossale: ma come, e la diversity con cui m’hai fatto una testa così dove s’è persa? Non è finita, perché le bolle finto-progressiste sono anche conformiste, paracule e politically correct, a modo loro: «Luna nera ha parecchi problemi, ma è una serie importante» (l’avessero scritta degli uomini, avremmo potuto tranquillamente dire che fa schifo, immagino); «Parlar male delle book influencer equivale a essere un rancoroso odiatore di donne» (sogno un book influencer maschio, che recensisca solo libri scritti da maschi, per godermi le accuse di sessismo al contrario); «È vergognoso che Greta Gerwig non sia stata candidata come miglior regista per Piccole donne» (forse, semplicemente, c’erano in lizza registi più bravi di lei?); «Leonardo DiCaprio in spiaggia dovrebbe mettersi un burkini, vista la panza che si ritrova» (ah, quindi il body shaming nei confronti del maschio bianco etero è ok). Dati i trend topic cavalcati dalle varie bolle – che un po’ s’assomigliano, con sfumature più o meno femministe, più o meno impegnate, più o meno animose – a noi non resta che uniformarci, pena l’ostracismo social, la presa sul personale e l’offesa: come possiamo pensarla così diversamente rispetto a un tema così importante? Ha ancora senso essere amici?

Correva l’inverno 2017, era da poco uscito La La Land e molte delle bolle che frequentavo (se ne possono abitare più d’una, sappiatelo) si divertivano a stroncarlo senza se e senza ma, con un livore che non lasciava spazio a repliche. Quando finalmente andai a vederlo, con mille preconcetti – detesto i musical e la bolla m’aveva influenzata, lo ammetto – uscii dal cinema con un grosso punto interrogativo: può non piacerti, La La Land, ma come puoi sostenere che sia un film di merda? Tornata a casa, mi sentii in diritto e in dovere di scrivere pari pari la considerazione di cui sopra su Facebook, e di esprimere il mio personale fastidio: moderiamo i toni, ragazzi. Magari il film non è nelle vostre corde, però definirlo una porcheria è un’inutile provocazione giusto per atteggiarsi a snob, suvvia. Non ricordo fino a che ora rimasi sveglia per rispondere all’indignazione generale, ma ricordo benissimo un’amica che s’offese mortalmente («Leggo, basisco e mi sento chiamata in causa») e che mi mise sulla lista nera (stop ai like, stop ai commenti, stop alle chiamate) per almeno un paio d’anni. Reo fu perciò La La Land, che nel tempo dei social e delle bolle social m’insegnò che basta un film per disimparare ad andare d’accordo.

Emma Stone e Ryan Gosling in ‘La La Land’

Fatico a tener traccia dei battibecchi che m’hanno vista impegnata e dei ‘torti’ che ho inflitto a conoscenti o passanti dell’Internet negli anni, ma ho imparato mio malgrado a riconoscerne i tratti ricorrenti. Assai di rado le conversazioni si risolvono in maniera educata e priva di risentimento. Della serie: «Non siamo in sintonia, capita, non scordiamoci che stiamo parlando di stronzate, ora beviamoci su una birra». Il più delle volte diventano una questione di vita e di morte, uno screenshot pubblicato su Instagram, un tiro alla fune in cui uno – il leader della bolla insieme ai suoi seguaci – si erge a metro del giudizio morale, mentre l’altro – lo sfidante che manifesta una critica – tenta di argomentare, ragionare e farsi valere invano. Il dissenso coincide con l’offesa, e a nulla valgono le spiegazioni: il caso limite arriva quando ci si deve quasi giustificare di un’opinione discordante per limitare i danni, nel tentativo di non dispiacere, di non addolorare e di non subire la giustizia sommaria del tribunale della bolla. Che sa essere impietoso, soprattutto se chiama a raccolta gli adepti pronti a inscenare una walk of shame sulla falsariga di quella della povera Cersei Lannister. Non è mai uno scontro privato uno contro uno, bensì un gioco al massacro pubblico con un unico scopo: ristabilire l’ordine e l’uniformità all’interno della bolla, silenziando le voci dissonanti attraverso la tortura della goccia cinese, altrimenti nota come tattica dello sfinimento. Il risultato, va da sé, non è soltanto l’impossibilità di scherzare, sdrammatizzare, osare o provocare, ma pure di riuscire a non andare d’accordo mantenendo toni civili ed evitando l’ammorbamento o, peggio, la criminalizzazione del proprio parere.

Nonostante Bret Easton Ellis in Bianco (libro demonizzato dalle bolle finto-progressiste, non a caso) abbia sintetizzato perfettamente l’atteggiamento conformista della società digitale – essere pratici, cauti e umili; tenere chiuse bocca e gambe; attenersi alle opinioni espresse in un determinato momento dal pensiero di gruppo più diffuso –, la frase più azzeccata per concludere il discorso viene da un film parecchio trascurabile. «Come tratti le persone con cui sei in disaccordo racconta tutto di te», sostiene Gretchen Carlson, l’ex giornalista di Fox News interpretata da Nicole Kidman in Bombshell. Mi piacerebbe tanto farci una t-shirt, con questa frase: chissà se la bolla stavolta (non) sarebbe d’accordo con me.

Nicole Kidman in ‘Bombshell – La voce dello scandalo’, in uscita al cinema a marzo

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