La notizia non è che Black Panther è il primo film di supereroi a vincere il premio per il miglior cast ai SAG, i riconoscimenti che gli attori danno agli attori. E nemmeno che è il primo cinecomic nominato agli Oscar nella categoria Best Picture. O meglio, anche. Ma non è questo il punto. Il punto invece l’ha centrato in pieno Chadwick Boseman sul palco degli Screen Actors Guild Awards, citando la canzone di Nina Simone:
“‘To be young, gifted, and black’: è questa la mia risposta ogni volta che mi chiedono se ci aspettavamo il successo di Black Panther e se ha davvero cambiato l’industria e il modo in cui veniamo percepiti”.
Era fin troppo chiaro che l’adattamento cinematografico del primo supereroe di colore uscito dalla penna di Stan Lee (era il 1966) non sarebbe stato solo un “altro” cinecomic, a partire da quando la Marvel ha voluto dietro la macchina da presa Ryan Coogler, quello di Fruitvale Station e del primo Creed. E avremmo dovuto capirlo anche quando Kendrick Lamar ha deciso di curarne la colonna sonora. Se ne sono accorti tutti, persino i grandi elettori del cinema.
Non è la prima volta che i tromboni dell’Academy posano il loro illustre, tradizionale (e spesso pallosissimo) sguardo su un film di supereroi per una categoria importante. È successo nel 2009, ma la circostanza era quantomeno singolare: l’Oscar postumo come miglior attore non protagonista a Heath Ledger, il Joker grunge de Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. E quindi conta fino lì.
Quello che importa è che dall’anno successivo l’Academy è stata improvvisamente colpita dal buonsenso e ha realizzato una cosa: che cinque candidati a miglior film erano pochi e che allargando la rosa fino a dieci avrebbe ampliato il bacino di gente effettivamente interessata agli Oscar. Portare le persone al cinema per vedere prodotti di valore, indipendentemente dalla definizione “d’autore” o “mainstream”, dovrebbe essere questo l’obiettivo ultimo di tutto il sistema. Ecco, se l’Academy non avesse fatto questo semplice 2+2, Black Panther non starebbe facendo la Storia in questo momento. Ma non tanto perché è il primo bla bla bla.
La questione è che Black Panther non è il solito film black da Oscar. Perché non si concentra su quello che ogni film black nominato agli Oscar (sì, pure Get Out a modo suo) ha messo al centro finora: la discriminazione, la sofferenza, la lotta per la vita e per i diritti, la speranza e la salvezza/vittoria dell’afro-americano nell’America bianca. 12 anni schiavo, Selma, Barriere, Il diritto di contare, Moonlight (nominati o vincitori nella categoria miglior film dal 2013 ad oggi) sono imprescindibili saggi di storia per immagini di cui ci sarà sempre bisogno.
Ma Black Panther è empowerment allo stato puro: 10 anni dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca ha risvegliato quello stesso sentimento di fiducia, di rivincita, di orgoglio. È il primo film black a portare con sé i sogni di chi non si è mai visto sullo schermo ritratto con tutta l’attenzione e i milioni solitamente dedicati a blockbuster con protagonisti bianchi.
Come ha detto più volte Ryan Coogler, Black Panther rappresenta quel trattino tra “afro” e “americano”, quello che il primo presidente nero aveva già istituzionalizzato. Stan Lee ha immaginato un luogo, il Wakanda, che non è segnato dal dolore, ma dal benessere, dal progresso, dalla tecnologia, un giovane re, T’Challa, di una finta nazione africana che non solo è mai stata colonizzata, ma che ha in sé le potenzialità per salvare il mondo. Black Panther è il supereroe in cui ogni bambino (o bambina, nel film ci sono donne-guerriere straordinariamente fiere e una ragazzina-genio) aspettava di riconoscersi. E ora lo può fare. E può pure andarsi a vedere (o rivedere) il film gratis, in occasione del Black History Month. Essere giovani, pieni di talento e neri negli USA vuol dire finalmente qualcosa. E sì, ci voleva un cinecomic perché accadesse.