The Legend of Tarzan, l’ennesimo capitolo della saga dell’eroe inventato dall’americano Edgar Rice Burroughs. A dare volto, e soprattutto corpo, all’uomo scimmia, è Alexander Skarsgård, figlio di Stellan, l’attore prediletto da Lars von Trier. Il regista è David Yates, britannico, che ha firmato quattro Harry Potter. Come tradizionalmente accade, le riproposte, i remake, devono sottostare alle leggi del tempo e del mercato. La matrice letteraria viene quasi sempre stravolta a favore dell’attitudine del pubblico, in prevalenza quello giovanile, abituato, nell’era recente, a una robotizzazione generale, che comanda tutte le rappresentazioni. Un segnale in questo senso: tutti gli animali sono creati col computer.
Parzialmente il film di Yates si adegua a queste regole ineluttabili. Tutta la parte raccontata mille volte del bambino che cresce nella giungla per poi essere condotto nella società civile è superata. L’antico selvaggio ora si chiama John Clayton III, Lord Greystoke, e si è integrato a Londra. La Camera dei Lord, appunto, lo invia in Congo, chi meglio di lui, per una importante missione. Ma laggiù ci sono solo intrighi e pericoli. Il percorso è dunque inverso rispetto a quello della tradizione. A questa ultima edizione si è arrivati assumendo tutte le sintesi precedenti, cercando di mediare le epoche e le storie, e le esperienze pregresse. Il materiale c’era, infinito.
Tarzan è uno dei grandi, magnifici modelli dell’incanto universale. Un codice che ha creato un precedente da cui non è stato più possibile prescindere. Come Robin Hood o Zorro, eroi fortissimi e ripetitivi, derivato dalla tradizione popolare il primo e da un testo di Johnston McCulley il secondo. E tutti quanti accolti nel profondo, come un’antropologia evocata dalla memoria e dalla coscienza. Burroughs pubblicò il libro nel 1912. Si racconta di Lord John Clayton Greystoke, funzionario delle colonie, e di sua moglie Alice che si ritrovano abbandonati in Angola per l’ammutinamento dell’equipaggio della loro goletta. Vengono sopraffatti dalle scimmie, sopravvive il loro bambino che viene adottato dal capobranco. Tarzan cresce nella foresta, trova dei libri e impara a leggere, non a parlare. Diventa il capo delle scimmie, le guida e le protegge.
Poi arrivano i bianchi, con loro Jane, che si innamora del Lord selvaggio. Vive la loro storia, ci sono avventure e pericoli. Alla fine Jane conduce Tarzan in America. Ma al momento decisivo, quello di decidere per la vita, la donna sceglie di sposare un suo pari. Non ha avuto il coraggio per la scelta definitiva. E qui interviene il cinema, al quale non si addice il finale triste. I film vogliono l’happy end. E così abbiamo visto Tarzan ogni volta andarsene felice, alla fine, mano nella mano con la sua Jane.
Tarzan è stato assediato dal cinema, senza soluzione di continuità e senza pietà. Il primo titolo è un “muto” del 1918, Tarzan of the Apes di Scott Sidney, con Elmo Lincoln. Sopra ho detto “codici” della letteratura e della tradizione. Il cinema ci ha messo i modelli e la grafica, ha rilanciato esponenzialmente i miti. Robin Hood è Errol Flynn, Zorro è Tyrone Power. Eroi dall’appeal irraggiungibile. Tarzan è stato un collettore gigante. Ha attirato tutto: film seducenti, altri mediocri, budget ingenti e produzioni famigliari, attori ipertrofici grotteschi, quasi muti. Ci sono state serie televisive e film di animazione, a volte di qualità, di Disney per esempio, spesso banali. Ci sono state parodie impossibili, persino con Totò. Ci sono stati i fumetti che fanno parte di raccolte classiche.
Ma la leadership assoluta e storica è quella di Johnny Weissmuller. È lì che staziona il mito, ancora adesso. Dunque nel mare immenso del mondo di Tarzan, costretto a una selezione improba, parto dall’olimpionico del nuoto che poi fece Tarzan. János Weismüller nacque nel 1904 nei pressi di Timișoara, Romania. Un anno dopo la famiglia era già a Windber, Pennsylvania. Da quel momento, come vuole la liturgia di molti grandi personaggi, ci sono tutti i lavori possibili, fattorino, addetto all’ascensore, minatore e così via. Poi arriva la piscina, il nuoto e quel destino. Alle Olimpiadi di Parigi del 1924 vince tre medaglie d’oro: 100, 200 staffetta 4×200. Si ripeterà quattro anni dopo ad Amsterdam. Un fenomeno, un eroe.
Ma c’è qualcosa di più: è “l’uomo più bello del mondo”, secondo i concorsi e i sondaggi che tanto amano gli americani. È dunque inevitabile che il cinema lo noti. Approda alla Metro e a… Tarzan. Sarà il protagonista, nel 1932, del primo della serie “parlato”. E non può che essere così, se devi lanciare quell’urlo agghiacciate, richiamo della foresta. Farà dieci Tarzan. L’ultimo nel 1946, a 42 anni, ormai lento e appesantito, e il regista sarà costretto, in montaggio, ad accelerare le bracciate.
Se devo richiamare un’unica, perfetta sequenza dalla magica vicenda di Tarzan, è quella dove nuota sott’acqua e con la sua Jane, la stupenda Maureen O’Sullivan. Lui mulina le sue bracciate armoniche, lei è attaccata ai suoi piedi e muove all’unisono le gambe, come una sirena. Per la Metro Weissmuller fu una miniera d’oro. E per il popolo del cinema un sogno da toccare. E non è difficile comprenderne la ragione: Tarzan rappresenta il ritorno al paradiso perduto, alla purezza primitiva ed ecologica a fronte del degrado generale, morale e fisico che ci sta attorno. Un deterrente felice e utile e tutti. E ben vengano i suoi corsi e ricorsi.