La nuova edizione di Assassinio sul Nilo di Kenneth Branagh, che è regista ed è Poirot, è l’occasione per una retrospettiva certo importante. Poirot, in chiave di spettacolo, cultura e letteratura, significa molto. Agatha Christie lo inventò nel 1920 (Poirot a Styles Court) e decise di farlo morire nel 1975 (Sipario – L’ultima avventura di Poirot). Il cinema si è interessato al detective dal 1931 (Alibi) fino ai nostri giorni. Poirot è dunque, con pieno merito, eterno. Le centinaia di storie che lo vedono protagonista lo hanno fatto diventare un amico di famiglia.
Il Poirot della Christie viene considerato un inglese acquisito, dallo strano accento franco-belga. Si conosce il suo metodo, ma si sa poco del suo privato, della sua stagione in Belgio. Da alcuni stralci dei romanzi emerge che Poirot, dopo aver vissuto a Spa con la famiglia “dignitosa ma non ricca”, divenne capo della polizia di Bruxelles. Nel 1914, all’inizio della Grande Guerra, si trasferì in Inghilterra. E certo si integrò alla perfezione. Gli scenari delle sue indagini vanno dall’Orient Express, appunto, ai traghetti esclusivi sul Nilo, agli alberghi per ricchi nelle isole greche, alle magioni dei lord nella campagna inglese. Un belga… inglesissimo dunque, meglio ancora: “vittoriano”. Lo si deve alla Christie.
Ai film tratti dai suoi racconti non servono licenze o contaminazioni. Decennio dopo decennio, si possono solo migliorare gli scenari e le estetiche. I romanzi sono già strutture perfette, nell’intreccio, nel dialogo e nella descrizione dei caratteri. E così l’altezza di Poirot, la pinguedine, i baffetti militari, i tic, la cura nel vestire: è tutto conosciuto. Chiamiamolo il quotidiano, l’ordinario. “Straordinaria” può essere un’informazione sulla sua religione: Poirot è un cattolico che muore con il rosario in mano, e la sua morte non può che essere legata a un’indagine. In Sipario è il detective stesso a commettere un omicidio, che può definirsi necessario e morale, perché la vittima è un criminale destinato a diventare un serial killer. Ma la sua ferrea etica crea a Poirot un senso di colpa che diventa somatico e si trasforma in malattia mortale.
Il primo Poirot al cinema è Austin Trevor, un irlandese dalla dignitosa carriera. Seguono altri professionisti come Francis Sullivan e Heini Göbel. Ricordabile è Tony Randall, il partner, in ruoli leggeri, di Rock Hudson. Ma i nomi storici del ruolo sono tre: Albert Finney, Peter Ustinov e David Suchet. Quando la produzione scelse Finney per l’Orient Express di Lumet dovette risolvere alcuni problemi: Albert era troppo alto e aitante per il ruolo, ed era anche bello. Era stato l’irresistibile conquistatore in Tom Jones e l’architetto di successo – seduceva Audrey Hepburn – in Due per la strada. Occorreva intervenire radicalmente. E Finney per tutto il film tenne la testa incassata tra le spalle, e acquisì tutti i tic di postura e movimento del vero Poirot.
Peter Ustinov è stato Poirot in Assassino sul Nilo, Delitto sotto il sole, Appuntamento con la morte, produzioni di grande budget, e poi di una serie di film televisivi. È stato un ottimo Poirot. Ma colui che più identifica il belga inglese, anche per longevità e numeri, è David Suchet. Non arrivò a quel ruolo da sconosciuto, non è stato uno Sean Connery, approdato a James Bond praticamente dal nulla. L’attore londinese – che certo non è fisicamente un Connery – si è formato partendo da ruoli di “carattere” esplorando tutto, dal cinema alla radio, al teatro. Tra il 1989 e il 2013 ha coperto il ruolo del detective ben settanta volte nella famosa serie televisiva. È questa familiarità che gli ha permesso, stagione dopo stagione, di essere Poirot.
Kenneth Branagh ha completamente ricostruito Poirot, lo ha fatto un po’ a propria immagine e somiglianza. Branagh è una pura anima shakespeariana, ama inserire implicazioni in quel senso. Andare oltre il carattere conosciuto, accreditato e amato da milioni di lettori e spettatori. Agatha non avrebbe gradito.