Occorre sempre stare attenti agli assoluti. Possono essere arbitrari e discrezionali. Ma se dico che George Gershwin (1898-1937) è il più grande musicista americano, credo la definizione sia… poco arbitraria. Gershwin ha toccato tutti i generi, alcuni li ha evoluti, altri combinati, altri inventati. Ha attraversato il blues, la musica leggera, la classica, l’operistica, il musical. Solo un genere non lo ha visto protagonista: le colonne sonore. Dunque il musicista non rientra fra i compositori che ho raccontato negli editoriali precedenti. Diciamo che preferiva essere libero nell’ispirazione artistica, senza essere condizionato da un racconto o da immagini precostituite. Non c’è dubbio che avrebbe affrontato anche quel ruolo al livello più alto.
Come quasi tutti i compositori di cui ho raccontato, anche Gershwin ha origini europee. Suo padre, Moishe Gershowitz, di origini ebraiche, si trasferì a New York da San Pietroburgo. George era il secondo di quattro fratelli, il primo era Ira (1896-1983), che sarebbe diventato il paroliere all’altezza delle musiche delle canzoni di George. Come di tutti i musicisti americani, il cinema ha raccontato la vita di Gershwin col film Rapsodia in blu (Rhapsody in Blue) di Irving Rapper, del 1945. George era naturalmente un talento precoce e predestinato. A dieci anni già suonava il piano e componeva. Il padre gli fece dare lezioni, che subito si rivelarono superflue. Il ragazzo era più avanti dell’insegnante. Per qualche tempo suonò in un negozio di spartiti, poi un paio di sue canzoni vennero pubblicate e cominciò a guadagnare qualche dollaro. Il momento del destino avvenne nel 1918 quando la sua canzone Swanee venne inclusa da Al Jolson, il cantante più popolare di allora, nel musical Sinbad, che ottenne grande successo a Broadway. Da allora per George Gershwin il percorso fu trionfale e la sua produzione, nonostante sia morto giovane, è stata vastissima. Quando ha affrontato un genere, lo ha dominato.
Come sempre occorre fare delle scelte, nell’infinita offerta artistica di Gershwin, e rassegnarsi a dolorose omissioni. Ecco alcuni campioni. La RKO assunse Gershwin per le musiche e le canzoni del film che stava preparando: Voglio danzare con te (Shall We Dance), del 1937, che faceva parte della strepitosa serie con Fred Astaire e Ginger Rogers. Gershwin compose otto canzoni, con le parole del fratello Ira, che divennero tutte dei classici. La più famosa è They Can’t Take That Away from Me, che Astaire canta alla sua partner, commossa, in pieno sentimento. Molti anni dopo, nel 1949, i due artisti, assunti alla Metro-Goldwyn-Mayer nei Barkleys di Broadway, la cantarono di nuovo, questa volta anche ballandola. I due non avevano l’energia della giovinezza, ma possedevano esperienza e un quanto di magia in più. Quel numero è una delle più belle performance dello spettacolo del Novecento.
Summertime è un’aria composta per l’opera Porgy and Bess, del 1935. La canzone è una delle più belle ed eseguite nei decenni. La Rapsodia in blu del 1924 è una composizione articolata e ricca di registri straordinari. Gershwin la scrisse inizialmente per due pianoforti, poi la estese fino a farne una sinfonia completa per orchestra. Nel tempo è stata adottata in tutte le forme: Woody Allen la usa come colonna del suo Manhattan; la Disney la inserì nel film Fantasia 2000. Anche I Simpson sono ricorsi alla Rapsodia. Un inserto prepotente della sinfonia fa parte del Grande Gatsby di Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio.
Infine il tema, il titolo, il sortilegio che subito viene evocato se dici “Gershwin”: Un americano a Parigi. Il “poema sinfonico” venne eseguito per la prima volta alla Carnegie Hall di New York nel dicembre del 1928. Ma è soprattutto il film del 1951, diretto da Vincente Minnelli, a decretarne la leggenda popolare. In C’era una volta Hollywood (1975) Frank Sinatra, chiudendo il film, dice: «Un americano a Parigi è il musical più importante che mai sia stato prodotto. Il balletto finale, con Gene Kelly e Leslie Caron, è un’espressione irripetibile di spettacolo e di arte del cinema».