Qualche settimana fa, facendo distrattamente zapping, mi sono imbattuta in Scarface. In prima serata. Su Iris. Un evento, insomma. Per quella strana logica secondo la quale beccare un film casualmente in tv dà più soddisfazione che mettersi a guardarlo intenzionalmente su Netflix o Amazon Prime Video (nonostante il doppiaggio, nonostante la pubblicità: si tratta di un qualcosa che ha a che vedere con un perfetto e fortuito allineamento cosmico), non ho cambiato canale. Passino i vari «faccia di merda», l’insulto preferito di Tony Montana, che a me continuano a divertire; passi la scena della motosega, che ancora non riesco a vedere per intero; passino la strafottenza, la cafonaggine e la volgarità di Tony, Manny, Frank Lopez e soci, ché pochi son stati capaci di dipingere un branco di gangster così, senza vergogna e senza filtri. Ma di fronte a frasi come «Ehi, ma dove cavolo sta Elvira? È tardi! Valla a cercare, per favore! Cristo, quant’è puttana… Passa metà della vita a vestirsi, e l’altra metà a spogliarsi! Ahahah!»; o a battute del tipo «Lo sapete perché le donne hanno il cervello che è grosso il doppio di quello dell’uomo? Perché è gonfio!»; ecco, in quei precisi momenti, io sono quasi cascata dal divano. E non perché mi sia sentita offesa, o perché le parole usate abbiano urtato la mia sensibilità. Tutt’altro: son caduta per terra semplicemente perché non ho potuto non domandarmi chi mai avrebbe il coraggio di produrre e distribuire una pellicola del genere, oggi. Violenza, linguaggio sboccato, droga, sesso, stereotipi razziali, non da ultimo una spiccata misoginia: nel 1983 era possibile, nel 2020 equivarrebbe a un suicidio. Nel 1983 eravamo capaci di capire che un malavitoso, criminale, signore della droga di origini cubane non poteva comportarsi o esprimersi come un laureato in letteratura a Yale, e c’accontentavamo di un blando divieto ai minori (di 17 anni negli Stati Uniti, dopo un intenso braccio di ferro tra Brian Palma e la Motion Picture Association of America).
A volte il caso ci mette proprio lo zampino. Qualche giorno dopo le mie profonde riflessioni circa i tempi bui e indignati in cui viviamo, è arrivata la decisione, da parte di HBO Max, di rimuovere temporaneamente dal proprio catalogo Via col vento, salvo reinserirlo «solo se accompagnato da un disclaimer a proposito del suo contesto storico e da una denuncia dei suoi toni razzisti». Da lì, la mia iniziale riflessione partita da Scarface s’è allargata come un sassolino gettato in una pozza d’acqua, e i cerchi hanno preso a ingrandirsi sempre di più: quali e quanti capolavori del passato avremmo rischiato di perderci a causa di questa rinnovata emotività e dello sdegno generale che intacca film, libri, serie tv, registi, comici, persino Franca Leosini?
Vado con i primi titoli che mi sono venuti in mente: Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan potrebbe trasformarsi nell’elogio della mascolinità tossica che anima i dibattiti delle neo-femministe; Lolita – tanto il romanzo di Vladimir Nabokov, quanto l’adattamento di Stanley Kubrick – in uno schifoso e pericoloso racconto pedopornografico; Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci figuriamoci, già non ebbe vita facile all’epoca, adesso rimarrebbe negli archivi di una qualche casa di produzione a marcire, manco fosse burro scaduto e dimenticato in frigorifero. E ancora: un amico appassionato cinefilo mi faceva (giustamente) notare che A qualcuno piace caldo di Billy Wilder verrebbe tacciato di deridere il travestitismo; Arancia meccanica e Assassini nati – Natural Born Killers peggio che andar di notte, Kubrick (aridaje) e Oliver Stone resterebbero due poveri disoccupati, ostracizzati per aver provocato il pubblico e alimentato l’istinto criminale in soggetti privi di mezzi per distinguere finzione e realtà. Probabilmente non s’accetterebbe a cuor leggero nemmeno un lieto fine per il Ben Braddock di Dustin Hoffman, che nel Laureato si porta a letto la mamma, poi s’innamora della figlia, poi succede un gran casino, e insomma cos’è, siamo impazziti?
In mezzo al calderone ci butto pure Taxi Driver di Martin Scorsese: è giusto regalare a un misantropo del calibro di Travis Bickle/Robert De Niro una pseudo-redenzione? Senza contare la Iris di Jodie Foster: sicuri sia proprio necessaria una prostituta dodicenne? E quella meraviglia del Cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway? Troppo feroce, troppo carnale, troppo dissacrante, troppo cannibale: chi lo capirebbe? Salto di palo in frasca, ne sono consapevole, ma anche due serie tv ben più recenti come Sex and the City e Girls andrebbero completamente ripensate: manca la diversity (leggi: non ci sono abbastanza afroamericani), i gay sembrano delle macchiette… No, signori, ci dispiace: ’sta roba così com’è non la possiamo davvero produrre.
La questione è ampia e scivolosa, la lista di pellicole potenzialmente problematiche lunghissima, gli interrogativi sul futuro della rappresentazione cinematografica e televisiva piuttosto insistenti. L’impressione (non solo mia, altrimenti non starei qui a scriverne) è che l’ultimo grande movimento per i diritti civili degli afroamericani – il cui obiettivo dovrebbe essere il conseguimento della libertà dalle discriminazioni – stia raccogliendo istanze diverse e non direttamente a esso collegate, creando un grande minestrone che, in nome del politically correct e della contrizione, dà vita a nuove e dannose forme di censura. Per proteggere tutta una serie di soggetti da poco riscopertisi sensibili e minare la presunta onnipotenza del maschio bianco etero, a quanto pare fonte di qualsiasi male odierno, sempre più spesso si preferisce giocare sul sicuro: narrazioni prevedibilissime, personaggi piattissimi, trame correttissime. Chi vuole osare non verrà più rimandato a settembre («Tagliami giusto un paio di scene, così non ci rompono i coglioni», «Ma senza quel paio di scene il film fa schifo!», «Mamma mia, ti diverti a non venire pagato?»), bensì provvisto d’un apposito disclaimer che, in qualità di maestra di sostegno per individui sottosviluppati, ci aiuterà a contestualizzare ogni cosa. Prendiamo Scarface, giusto per tornare laddove siamo partiti: il disclaimer potrebbe recitare una roba tipo «I fatti narrati sono frutto di finzione. Tony Montana è un gangster, non un allevatore di coniglietti: è un duro, dice le parolacce e si comporta parecchio male. Nutriamo rispetto nei confronti dei cubani e delle donne, che non devono sentirsi offesi per via di una raffigurazione volutamente esasperata e stereotipata. Ah, non drogatevi, la droga rovina le persone».
In un futuro prossimo parecchio distopico (o forse no), m’immagino che il contestualizzatore-barra-disclaimerista sarà la professione più ambita, e che – come fu per gli alcolici – nascerà un mercato nero di film e libri privi d’avvertenze. Noi, figli d’un tempo lontano in cui si poteva ridere di tutto e che per chissà quale strano motivo riuscivamo a decodificare (quasi) tutto, ci scambieremo le copie non-contestualizzate di Viaggio al termine della notte, di Notre-Dame-des-Fleurs, di Via col vento e di Happiness, tramandandole a nipoti sbigottiti dall’assenza di censura. «Una volta non ce n’era bisogno», spiegheremo tra l’imbarazzato e il mortificato, a loro che magari avranno visto soltanto il reboot di Scarface girato da Luca Guadagnino e scritto dai fratelli Coen (se mai si farà). Vallo a spiegare, che «You wanna fuck with me? Okay. You wanna play rough? Okay. Say hello to my little friend!» per noi rimane una delle chiuse più belle della storia del cinema.