E certo in questa occasione parlare ancora di incanto sarebbe comodo, insomma indugiare sulla solita faccenda del Modugno straordinario che in quel Sanremo del 1958 cantando “Nel blu dipinto di blu” e spalancando le braccia di fronte a un pubblico che gli varrà 800.000 copie vendute a fine anno solo in Italia (e 22 milioni, ripeto, 22 milioni nella totalità delle vendite sul pianeta), incantò, appunto, la nazione: oh, come la incantò! Tuttavia sarebbe anche davvero ingeneroso cucire a un artista di questo calibro e di questa prodigiosa ancorché inedita multiformità la sola giacca – naturalmente celeste – della magia e della malìa. Quello che è stato Domenico Modugno in grande parte sembra sfugga ancora oggi alla sua vulgata, a una narrazione immobile che lo racconta cantantone fimminaru in generico accento del sud tra una canzone che parla di pesci, una tarantella fake in aria napoletaneggiante e una bella ballatona d’amor svenevole in forma di serenata o da prestare durante la parentesi musicale più intima di un matrimonio di sette ore con quattrocento invitati.
Modugno però, è evidente, non fu solo l’incantatore, l’anima del popolo che aspettava qualcuno che dopo romanze, romanzine e romanzette ancora in odor di melodramma lo facesse cantare a squarciagola, libero nell’abbraccio al mondo, usando la lingua di uso corrente, ma fu il primo grande lavoratore della canzone, il primo cantautore inteso come la modernità della canzone italiana intenderà questa figura: figura del fare canzone, cioè artigiana, ma pure ancora in grado di conservare l’afflato lirico, quell’indicibile che deve aleggiare sulla poesia, insomma quella morbida di culla del riconoscibile sovrannaturale lirico, dell’ispirazione, della potente rivelazione dell’emozione che incontra la ragione e si fa parola: testo musicabile, musica narrabile. A questo piano fa riferimento lui stesso quando, parlando della crisi delle vendite di metà anni ’60 si confiderà esplicitamente vittima di un blocco dello scrittore, con l’implicito d’essere dunque scrittore di canzoni: “per la prima volta non riuscivo più a comporre, a scrivere”.
Negli anni ’60, intanto, tutti gli altri sono distanti di molti passi, stanno ancora iniziano a scriverle, queste canzoni, la figura del cantautore esce dal ventre del boom ancora senza esigenze di narrazioni politiche e sociali, mettendo un piede fuori dalla grotta dorata della canzoncina (talora straordinaria) da jukebox ma tenendosi ancora lontanissimi, per ovvie ragioni storiche, da quella canzone d’autore che invaderà le piazze o che coniugherà privato e politico. Lui invece è già lì, talmente avanti nel processo da sperimentare una crisi mostrandosi a ognuno per quel che, strutturalmente, è: non un altro cantante dalla vocalità prestante e prestata a sfilacciate canzoncine moribonde indegne della forma canzone ma, puramente, un autore.
La storia del ragazzo del sud che scappa al nord in cerca di fortuna di nascosto dal padre (poi suicida nei primi 60s sfinito da una malattia cronica), finendo a lavorare come gommista, come cameriere e vivendo pure nell’indigenza di una baracca, è la storia topos dell’italiano emigrante, è all’epoca la storia di tanti, ed è solo uno dei tasselli che permettono all’Italia di riconoscersi o almeno sperarsi in ciò che Modugno rappresenta: un assoluto self-made man dal talento ammaliante che passa per fisico, corde vocali, prossemica, un talento che approda alla canzone con l’anima del cantastorie nel suo dialetto – vernacolo sanpietrano e non quel generico accento del sud – evidenziando da subito la propria anima popolare, quello che il mondo vuole vedere prima di ogni puro talento: un talento che è radicato, che squarcia la terra delle radici e da lì, e solo da lì, va nel mondo. E Domenico nel mondo ci va più di chiunque e prima di ogni altro: va all’Ed Sullivan Show, alla Carnegie Hall, a Boston come a New York come a Los Angeles come a Buffalo, pronto a tornare con tre Grammy con lo stesso orgoglio popolare di quando, qualche anno prima, ancora signor nessuno delle Puglie profonde, aveva destato l’interesse dei dirigenti Rai per essere stato notato da Frank Sinatra mentre loro, come da copione istituzionale, ancora prestavano orecchio solo a quelle romanze, romanzine e romanzette.
Modugno popolare, certo, Modugno mare e terra, certo, ma terra coltivabile perché Modugno, dicevamo, è un lavoratore. Modugno studia, diventa ragioniere, e poi si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, lo fa vincendo una borsa di studio di cinquantamila lire al mese e concludendo regolarmente il percorso. Nel frattempo recita in decine di film e si inserisce anche nel mondo del teatro. Negli anni lavorerà con Eduardo De Filippo, con Giorgio Strehler (nell’Opera da tre soldi di Brecht e Weill) ma pure con De Sica, Pietrangeli, Bolognini, Comencini, Zampa. Con Pier Paolo Pasolini non solo recita ma scrive “Che cosa sono le nuvole”, lavorando su parole e frasi estratte da Pasolini stesso dall’Otello di Shakespeare. Conosce e collabora anche con Salvatore Quasimodo musicandone due componimenti – cosa che poeta, schivo e dal carattere difficile, non aveva mai voluto concedere a nessuno prima di allora.
Eccolo qua dunque, Modugno, che coltiva la terra delle radici, Modugno che si accultura, curioso, e facendo canzone fa cultura, Modugno che dopo i Grammy non si ferma ma lavora, artigiano di un’Italia in crescita e che sa che la performance, quindi quella recitazione che lui ha studiato e praticato a fondo nelle arti di riferimento non può essere un aspetto periferico quando si tratta di musica pop ma anzi, può e deve diventare carta vincente, scarto fondamentale, tessuto espressivo ulteriore, prato su cui lui è il primo a correre come performer moderno.
Il pop incontra la cultura riconosciuta, quella alta, e non è un caso che proprio lui arriverà da un lato quasi a condurre un’edizione di Sanremo (1976) per poi sottrarsi tre giorni prima dell’inizio della manifestazione e dall’altro – e mai cosa fu più filologicamente corretta – a vincere la prima edizione del Premio Tenco (1974). Modugno ispira un racconto a John Cheever (poi pubblicato sul New Yorker) con un mambo italiano che più estivo non si può (Mariti in città) e insieme si impone come ottimo rumorista, lavoro che lo spingerà in territori lontani dalla melodia, che gli ispireranno anche straordinari inserti e follie psichedeliche come il non – brano “Questa è la facciata B” in cui con testuale situazionismo dirà, tra loop lisergici e una spiralica jam beat: “Dunque ragazzi, dato che voi la facciata B del disco di Sanremo non la ascoltate, io la canzone non l’ho fatta”.
Prima con il Partito Socialista per il divorzio, nel 1973, e poi, da disabile in seguito a un ictus (fumava sessanta sigarette al giorno), con il Partito Radicale nella lotta per i diritti dei disabili, Modugno si impegna attivamente in politica e nel 1987 viene anche eletto alla Camera dei Deputati: anche in questo un grande esempio di libertà, slancio e desiderio di congiunzione di mondi, laddove il regno dell’impegno politico in canzone, ormai, lo considerava ormai un vecchio zio da canzoncine teatrali.
Se allora è certamente vero che venticinque anni fa veniva a mancare il primo cantautore italiano e l’uomo che attivò la prima rivoluzione della canzone italiana (chi attiverà la seconda sarà Francesco De Gregori incidendo di nascosto Rimmel), è importante soffermarsi su quanto questa rivoluzione sia profonda, radicata, pervasiva, su quanto cioè riguardi l’arte nella sua forma, certo, ma soprattutto l’approccio all’arte e questa nuova forma messe sul campo. Modugno, allora, andrebbe celebrato ma soprattutto scoperto o riscoperto come protagonista assoluto di una storia italiana di emancipazione artistica pressoché irripetuta, ancestrale e straordinaria, qualcosa che precede e dunque valorizza ancora di più tutti i suoi – tanti, tantissimi – capolavori.