Alla fine è toccato al giullare, all’attore brillante prestato alla musica, al tizio che prima fa la faccia da scemo e poi ti spara in testa, o si fa sparare alle spalle, insomma è toccato a Childish Gambino condensare in un album l’aria che tira. 3.15.20, il disco diffuso online e poi ritirato e di nuovo pubblicato sulle piattaforme di streaming, è la fotografia esatta di questo 2020: un gran casino.
Se non è possibile dare un senso a un mondo in cui la politica insegue i social e i video intitolati “Ecco che cosa non vogliono farvi sapere” valgono quanto i pareri degli scienziati, lo si può almeno rappresentare. È quel che fa Donald Glover in quest’oretta di musica in cui resta fedele al suo personaggio che mette assieme sguardo consapevole sul mondo, infantilismo, carica sessuale, follia. Purtroppo non c’è un’altra This Is America, grande invenzione che raccontava la condizione degli afroamericani in modo potente e ambiguo. Ma il mondo descritto non è tanto diverso. Lo si trova rappresentato nelle quattro diverse copertine apparse per breve tempo su donaldgloverpresents.com, dove l’album è stato messo online per 12 ore. Montate assieme, compongono una scena di caos metropolitano delirante, con gente che scatta selfie mentre le persone si gettano dalle finestre dei palazzi in fiamme (la copertina della versione presente nelle piattaforme di streaming è completamente bianca).
Il fatto che 3.15.20 esca nel momento in cui a causa di una pandemia quasi tre miliardi di persone sono chiuse in casa e nessuno sa dire quanto finirà è appropriato. Il mondo che conoscevano va in pezzi ed è quello che accade in quest’album, nel suo modo di raccontare la realtà in modo frammentato e spiazzante. Succede ad esempio in una canzone titolata Algorhythm, gioco di parole fra ritmo e algoritmo. Un altro pezzo chiamato 24.19 – 10 canzoni su 12 al posto di un titolo tradizionale hanno l’indicazione dei minuti e secondi i cui cadono nella scaletta tant’è che la nota Feels Like Summer qui si chiama 42.26 – sembra provenire dal repertorio di Prince finché si ferma bruscamente e fa spazio a un coro che evoca certe cose aeree e celestiali dei Pink Floyd. In 32.22 è una specie di rap digital-industriale in cui il canto di Gambino è sfigurato fino ad assumere il suono metallico della macchina. È cupa e primitiva, parla di violenza, la voce alterata la porta in un’altra dimensione, forse quella della vita digitale.
Così come la musica passa dall’hip hop all’elettronica al funk al soul al pop, i testi parlano di algoritmi, sesso, violenza, amore, razza. Glover non è un narratore, ma conosce la potenza della battuta ficcante, dell’immagine forte. In un pezzo ci descrive come cavie da laboratorio, gente che vende le figlie al flusso dei dati. C’è una specie di inno motivazionale che sembra parlare d’identità afroamericana e c’è un pezzo bello incasinato che racconta un’avventura sessuale con tanto di funghi psichedelici. Sembra un disco centrato su Gambino, ma si apre con un enigmatico “we are” ripetuto 30 volte. Molte canzoni sono giocate fra questi due piani, quello collettivo e quello personale. È il caso di Time che è interpretata con Ariana Grande – la si ascoltava in Guava Island, ma qui suona diversamente – con l’immagine di sette miliardi di persone che cercano la liberazione e Glover che dice un miliardo di preghiere per salvare sé stesso.
L’alternanza fra grandi momenti e pezzi così così fa di 3.15.20 un’esperienza a tratti grandiosa e a tratti frustrante. Pare di rintracciare se non altro un senso o almeno una direzione in quest’album che va da certe visioni cupe delle prime canzoni all’happy end di 47.48 e 53.49. In una Glover parla d’amore per sé e per gli altri col figlio Legend, nell’altra serve una morale un po’ scontata e consolatoria sull’accettazione, sul sentirsi amati, sulla necessità di ballare su questo gran casino. O forse è di questo che abbiamo bisogno oggi, di messaggi semplici.