Va così di questi tempi. Un tizio scrive un libro e riporta il commento di una collega secondo la quale cinquant’anni fa un compositore avrebbe fatto un commento razzista. Passano due anni e il Guardian riprende quel passaggio. Qualcuno twitta l’articolo, qualcun altro fotografa la pagina del libro ed è fatta, si scatena il linciaggio social e il passaparola per “cancellare” il compositore, in spregio a ogni principio di cautela, di garantismo, di buonsenso.
Il musicista è Steve Reich e non è uno qualunque, ma uno dei grandi del minimalismo americano, la corrente che ha sconquassato la musica classico-contemporanea negli anni ’70 trasformandola in flussi sonori basati su piccole variazioni di parti estremamente ripetitive, una cosa che sta a metà strada fra il gioco di prestigio acustico e l’happening freak da hippie secchioni. Fatto sta che Reich è citato nel libro A Hidden Landscape Once a Week, antologia di saggi, conversazioni e ricordi della stampa musicale inglese tra gli anni ’60 e gli anni ’80. Curato da Mark Sinker, il libro è uscito nel 2018. Lunedì 7 settembre un pezzo del Guardian di Philip Clark intitolato “Beethoven era nero” ne cita un passaggio.
«In A Hidden Landscape Once a Week, Mark Sinker riporta una sua conversazione con la fotografa e scrittrice Val Wilmer a proposito di una intervista di lei con Steve Reich. Il compositore aveva appena finito di scrivere Drumming, composizione epocale basata su alcuni ritmi che aveva sentito in Ghana. Riferendosi a un amico comune, un musicista afro-americano, Reich disse che “è uno dei pochi neri con cui si può parlare” aggiungendo che “i neri si stanno rendendo ridicoli negli Stati Uniti”».
Può darsi che la storia sia vera. Può darsi che lo sia solo in parte. Può darsi che sia stata riportata male. È probabile che le cose non siano così semplici: raramente lo sono. Eppure, senza porsi alcuna domanda, decine di utenti di Twitter hanno deciso: Steve Reich è un porco razzista e va cancellato. È una cosa violenta e insensata, ma solo poche voci s’alzano sul social per dire: fermiamoci, ragioniamo. Come gli anziani che quarant’anni dicevano «l’ha detto la tv» quale prova della veridicità d’un fatto, ai twittanti basta la foto di una pagina di libri per far partire le manganellate digitali.
Nel 1966 Reich ha pubblicato un collage elettronico chiamato Come Out in supporto agli Harlem Six, i sei ragazzi afroamericani accusati dell’omicidio di Margit Sugar? La cosa non spinge a considerare con cautela quelle frasi di seconda mano, ma è la prova provata del fatto che «non ci si può fidare della solidarietà dei bianchi liberal». Piovono tweet indignati, anzi schifati, una corsa ad affermare la propria superiorità morale. Si va da «cancelliamolo» al più virile «lo prenderei a schiaffi». I più teneri sono quelli che amano la musica di Reich e si sentono improvvisamente spaesati. «Non devi sentirti in colpa per averlo ascoltato», scrive un utente di Twitter rassicurando un giovane musicista che pare disorientato come un bimbo che s’è perso al supermercato e non trova più la mamma. Chissà che cosa accadrà quando scoprirà Wagner.
E poi ci sono gli esteti. Sono decenni che Steve Reich, fra poco 84enne, non è un più un musicista rivoluzionario. Quale momento migliore per dirlo al mondo? C’è chi punta il dito contro il cognome del compositore: com’è che ricorda il Terzo Reich, eh? Il fatto che sia un ebreo e che abbia dedicato all’Olocausto una composizione celeberrima come Different Trains non fa alcuna differenza. Il fatto che sia ricco è invece un’aggravante. Viene tirata fuori un’intervista in cui il maverick Morton Feldman chiedeva retoricamente che musica aspettarsi da uno che viene da una famiglia che ha vissuto ai Dakota Apartments, la residenza lussuosa affacciata su Central Park dove stavano John Lennon e Yoko Ono, Lauren Bacall, il radical chic originale Leonard Bernstein. Qualcuno tira fuori un passaggio del libro del 2009 di Donald Trump Think Like a Champion in cui il futuro presidente (direi il suo ghost writer) mostra di conoscere Steve Reich e ne discute brevemente lo stile. Associato al presidentaccio, su Twitter il compositore diventa un fervente trumpiano.
Vi è poi un’altra accusa, più seria: appropriazione culturale. Non è un segreto che il minimalismo si basi su figure ritmiche prese da altre culture, dalla musica dell’Africa occidentale al gamelan, l’orchestra di percussioni intonate di origine indonesiana. È una cosa che si è sempre fatta anche in campi musicali meno colti – il rock tutto nasce da atti di appropriazione culturale – ma nel 2020 è cosa razzista. «Era una vita che aspettavo di cancellare Steve Reich e Philip Glass, i loro primi pezzi sono rubati dalla musica indiana e dell’Africa occidentale», scrive una per tutti. Viene criticata anche It’s Gonna Rain, una composizione basata su una frase detta da un predicatore pentecostale che Reich montò su nastro, creando intricate figure ritmiche. Il problema è che quel predicatore era di colore. Qualcuno per analogia tira fuori i progetti in Sud Africa e America Latina di Paul Simon. Un altro supera tutti a sinistra e aggiunge che i cantanti bianchi che usano coristi di colore sono razzisti, punto e basta.
Steve Reich non ha commentato tramite il suo account Twitter che è gestito da Boosey & Hawkes, che ne pubblica gli spartiti. Per i twittanti non c’è bisogno di leggere la sua versione dei fatti. Hanno già bell’e pronta la soluzione: cancellare Steve Reich e sostituirlo con Julius Eastman, il compositore dimenticato e rivalutato un quarto di secolo dopo la morte avvenuta nel 1990. Lui sì che era perfetto: afroamericano, gay e morto povero.